Simonetta Vespucci (Genova o Portovenere, 1453? – Firenze, 1476) è una figura consegnata alla fama eterna in virtù della sua grazia e bellezza. Nata in seno alla nobile famiglia genovese dei Cattaneo della Volta, si trasferì a Firenze in seguito al matrimonio contratto con Marco Vespucci, intimo della famiglia Medici. Assunta a modello di bellezza neoplatonica, venne celebrata dai poeti ed immortalata dagli artisti della cerchia di Lorenzo il Magnifico.

Una nobile ascendenza

E’ difficile ricostruire le origini di Simonetta Vespucci, per la quasi totale assenza di documenti e testimonianze dirette. Fondamentale risulta un’annotazione contenuta nel Catasto fiorentino del 1469-1470, nel libro relativo al quartiere di Santa Maria Novella. Qui, al gonfalone dell’Unicorno, risulta registrata la famiglia di Piero Vespucci, composta, tra gli altri, dal figlio “Marco di Piero di Giuliano età d’anni XVI” e da “Simonetta di messer Guasparri Catani sua dama d’anni XVI”. Si deduce così che Simonetta doveva essere nata intorno al 1453 da Gaspare Cattaneo della Volta, di antico lignaggio, e da Cattocchia (Caterina) Violante Spinola. La madre aveva sposato in prime nozze Battista Fregoso, uomo d’armi e doge genovese per un solo giorno!

Il luogo della nascita, invece, rimane incerto, individuato dagli studiosi alternativamente in Genova o in Portovenere, dove la famiglia aveva dei possedimenti.

Il principe di Piombino, sensale di eccezione

Intorno al 1457, durante il dogato di Pietro Fregoso, figlio di primo letto di Cattocchia, Genova conobbe un periodo di lotte intestine che costrinse la famiglia di Simonetta a lasciare la città e a rifugiarsi a Piombino, presso la corte degli Appiano, a cui era legata da vincoli di parentela. Fu Jacopo III di Appiano, signore di Piombino, a fare da tramite per il matrimonio di Simonetta. Egli assegnò addirittura una cospicua dote alla futura sposa, ricavandola dalle rendite derivanti dalle miniere di ferro che possedeva nell’isola d’Elba. Lo sposo prescelto era il coetaneo Marco Vespucci, cugino del più noto Amerigo. Appartenente a una prestigiosa famiglia di mercanti, egli poteva vantare, tra l’altro, anche una solida relazione con la famiglia Medici. Il matrimonio di Simonetta fu dunque l’occasione, per il signore di Piombino, di avvicinarsi alla famiglia egemone fiorentina e di gettare le basi per una futura alleanza, che si concretizzò poi nel 1482, grazie all’unione della figlia Semiramide con Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, detto “il Popolano”.

Un evento fondamentale

La vita fiorentina di Simonetta dovette trascorrere tranquilla, nella modestia e riservatezza richieste alle donne del suo rango, tanto che le (scarse) notizie che abbiamo di lei si deducono solo in maniera indiretta, leggendo la corrispondenza di altri membri della sua famiglia. La bella Cattaneo si spense ancora giovane, a soli 23 anni di età. Che cosa accadde, allora, per consacrarla alla fama? Fondamentale fu la giostra che si disputò a Firenze in piazza Santa Croce nel 1475, vinta da Giuliano de’ Medici e a lei dedicata. Il torneo ebbe infatti delle ricadute culturali importanti, ancora oggi evidenti in numerose opere d’arte e di letteratura.

Le giostre fiorentine

Nella Firenze del Quattrocento si andò ad attestare la consuetudine di organizzare giostre e manifestazioni cavalleresche nel periodo del carnevale o in occasione di altre festività e celebrazioni cittadine. Erano queste occasioni di svago, di ostentazione, di magnificenza, concepite per dimostrare il valore e l’onore individuale e collettivo.

Per tale motivo ad esse partecipavano non solo i cittadini fiorentini ma anche capitani di ventura, uomini d’arme e principi stranieri, talvolta rappresentati dai propri cavalieri.

Con l’età laurenziana e l’affermarsi del potere mediceo, le giostre vennero ben presto investite di un nuovo significato, che poneva in secondo piano la celebrazione cittadina per dare maggiore risalto al prestigio personale del casato.

Lorenzo e Giuliano, cavalieri senza macchia

Fu Lorenzo il Magnifico stesso a distinguersi per primo in uno di questi tornei cavallereschi, che giocò e vinse il 7 febbraio 1469. L’avvenimento segnò, a pochi mesi di distanza dal matrimonio per procura con la romana Clarice Orsini, il definitivo passaggio all’età adulta del rampollo Medici, ormai ventenne. La giostra di Lorenzo presenta evidenti similitudini con quella, di pochi anni successiva, che ebbe come protagonista il fratello minore. Entrambe vennero ideate dagli intellettuali che gravitavano intorno alla famiglia e furono concepite come un racconto cavalleresco, con protagonista un prode cavaliere (il giovane Medici) costretto a superare prove ed ostacoli per conquistare il cuore della dama amata. Entrambe vennero celebrate a posteriori da poeti della cerchia medicea: Luigi Pulci mise in rima la giostra di Lorenzo mentre al Poliziano toccò l’onore di cantare le gesta di Giuliano.

Amori impossibili

Ma chi erano le donne amate tanto vagheggiate dai due cavalieri? Nel caso di Lorenzo si trattava di Lucrezia Donati, nobildonna fiorentina e sposa di Niccolò Ardinghelli, mentre il cuore di Giuliano batteva per la bella Simonetta che, come precedentemente ricordato, all’epoca della giostra era maritata da ormai qualche anno a Marco Vespucci.

Due donne sposate e quindi impossibilitate a ricambiare il loro sentimento. Come potè, allora, non essere motivo di scandalo l’aperta ammirazione nei loro confronti? Proprio grazie agli ideali cavallereschi dell’amor cortese e alla  trasformazione dell’amore terreno, passionale, in tensione capace di elevare moralmente e spiritualmente.

Un sontuoso apparato decorativo

La giostra del il 28 gennaio 1475 venne indetta per celebrare la “lega italica” che  sanciva l’alleanza tra Firenze, Milano e Venezia ed era stata rinnovata nel dicembre precedente. Fu anche l’occasione, però, per mettere in luce il prestigio della famiglia Medici e la solidità della dinastia. Ad accompagnare Giuliano lungo il corteo che lo portò a piazza Santa Croce, luogo destinato ad ospitare il torneo, vi furono non solo il fratello Lorenzo ma anche il nipote Pietro, di appena tre anni. L’intero apparato decorativo e gli ornamenti indossati da Giuliano e dei suoi cavalieri furono particolarmente sontuosi. Nel libro di ricordi del notaio ser Giusto d’Anghiari si legge che i giovani “avevano ornamenti di perle e di gioie e il valsente di 60.000 fiorini” e che le perle erano così numerose che durante gli scontri le si potevano vedere rotolare per terra!

Lo stendardo di Sandro Botticelli

Purtroppo perduto è il magnifico stendardo da parata concepito da Sandro Botticelli per Giuliano, che rappresentava un tema caro alla cerchia culturale medicea: una Atena/Minerva grande “al naturale”, simbolo di amore casto. La dea, secondo quanto riportato da uno spettatore d’eccezione, l’umanista Naldo Naldi, era rappresentata con i suoi consueti attributi: stringeva in una mano una lunga lancia e nell’altra lo scudo con la testa di Medusa. I suoi piedi poggiavano sul fuoco, che bruciava i rami di ulivo disposti ai lati della sua figura. Tutt’intorno, si stendeva un bel prato fiorito con un ceppo di olivo a cui era incatenato il dio dell’amore, Cupido, le cui armi erano deposte ai suoi piedi. A un ramo di ulivo era anche legato il motto “La sans par” (la senza uguali), allusione alla bellezza irraggiungibile di SImonetta, le cui fattezze erano riconoscibili nel volto della dea.

Le Stanze del Poliziano

Ad Agnolo Poliziano (1454-1464), accolto in casa del Magnifico fin dal 1473, spettò il compito di trasformare il combattimento cavalleresco di Giuliano in una invenzione letteraria. Nelle Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano di Pietro dei Medici, opera in ottave rimasta incompiuta, il giovane cavaliere assume le sembianze di un cacciatore insensibile all’amore, Iulio, che viene attirato in un tranello dal risentito Cupido e si innamora della ninfa Simonetta. Per conquistare il cuore della casta ninfa, Iulio dovrà dimostrare il suo valore vincendo un torneo ed avviandosi lungo un percorso di formazione e maturazione che lo porterà a sublimare il suo amore. Ecco come il Poliziano descrisse la ninfa: “Candida è ella, e candida la vesta / Ma pur di rose e fior dipinta e d’erba: / Lo inanellato crin dell’aurea testa / Scende in la fronte umilmente superba. / Ridegli attorno tutta la foresta, / E quanto può sue cure disacerba. / Nell’atto regalmente è mansueta; / E pur col ciglio le tempeste acqueta”.

Una fine prematura

L’amore platonico tra Giuliano e Simonetta non era destinato a durare, stroncato dalla morte prematura di entrambi i giovani. La Cattaneo si spense l’anno successivo alla giostra, probabilmente a causa della tisi. A nulla valsero gli sforzi della famiglia e l’interessamento di Lorenzo il Magnifico per salvarla dalla malattia che l’aveva colpita.

Dalle lettere di Piero Vespucci sappiamo che il Medici aveva addirittura  inviato il suo medico personale, maestro Stefano, al capezzale della donna. Dopo un lieve miglioramento, le condizioni di Simonetta peggiorarono, e forse non aiutò il fatto che l’inviato di Lorenzo fosse in contrasto con maestro Moyse, l’altro medico incaricato dalla famiglia, con il quale dissentiva sia sulle cause dell’infermità sia sui migliori rimedi da adottare.

Simonetta morì il 26 aprile 1476 e venne sepolta il giorno dopo nella cappella di famiglia, all’interno della chiesa fiorentina di Ognissanti. Il suo corpo rimase in vista durante il corteo funebre e i presenti non mancarono di annotare che neppure la morte era riuscita a privarla della sua grazia e della sua bellezza.

Due anni più tardi, il 26 aprile 1478, un tragico destino colpì anche Giuliano, vilmente ucciso nel corso della Congiura dei Pazzi.

La nascita di un mito

La scomparsa di Simonetta segnò la nascita del suo mito e la sua elezione a ideale di bellezza neoplatonica tra il circolo di intellettuali ed artisti medicei.

E’ Lorenzo il Magnifico stesso a ricordare, nel breve commento che introduce ai quattro sonetti che compose in suo ricordo, che “(…) tutti e fiorentini ingegni, come si conveniva in tale pubblica iattura, diversamente e si dolsono, chi in versi e chi in prosa, della acerbità di questa morte. e si sforzorono laudarla, ciascuno secondo la facoltà del suo ingegno”. E più avanti ci aiuta a comprendere la già diffusa fama della Cattaneo: “Morì nella città nostra una donna, la quale se mosse a compassione generalmente tutto il popolo fiorentino, non è gran meraviglia, perché di bellezze e gentilezze umane era veramente ornata più di qualunque altra vissuta prima. E, fra le altre sue eccellenti doti, aveva così dolce e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevano qualche rapporto credevano di essere da essa sommamente amati. Le donne sue equali non solamente di questa sua excellenzia tra le altre non avevano invidia alcuna, ma sommamente esaltavano e lodavano la sua bellezza e nobiltà: per modo che impossibile pareva a credere che tanti uomini senza gelosia l’amassero e tante donne senza invidia la lodassero. E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, la rendesse cara a tutti, pure la compassione della morte, e per la sua giovane età e per la bellezza che, così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei uno ardentissimo desiderio”.

Lorenzo e gli altri

Lorenzo compose dunque per la morte di Simonetta quattro sonetti: “O chiara stella”, “Quando il sol giù dall’orizzonte scende”, “Di vita il dolce lume fuggirei” e “In qual parte andrò io, ch’io non ti truovi”, che celebrano le virtù della donna ma offrono anche una riflessione sui concetti di morte – intesa come nuovo inizio – e di amore, che per raggiungere la perfezione deve morire alle cose imperfette.

Anche il poeta Bernardo Pulci ebbe modo di tessere le lodi della giovane nella sua elegia in terzine In morte di Simonetta Cattaneo genovese: “Chi vedrà più tra noi spirto sì degno, / Tante doti eccellenti, esimie e clare, / Dove pose Natura ogni suo ingegno? / Chi vedrà più virtù nel mondo rare, / In un cuor generoso, onesto e schivo, / Ove ogni nostra gloria al mondo appare? / Oh fido esemplo, animo eccelso e divo, / Alto valor che’l secol nostro ingrato / Conobbe sol poi che di lui fu privo!”

Ma Simonetta ispirò le rime di molti altri, tra i quali il latinista Naldo Naldi, Piero Dovizi da Bibbiena, cancelliere privato del Magnifico, e Girolamo Benivieni, raffinato umanista della corte medicea.

La musa di Botticelli

Ma è Sandro Botticelli l’artista il cui nome è legato indissolubilmente a quello di Simonetta. E non solo per il già citato stendardo realizzato in occasione della mostra del 1475. Una ormai consolidata tradizione vuole addirittura che “la sans par” sia stata musa ed addirittura amante del celebre pittore. A supporto della tesi, vi sarebbe anche il fatto che il Botticelli sia stato sepolto nella stessa chiesa di Simonetta, come se avesse voluto rimanere per sempre accanto all’amata. Ideale romantico, smentito dalla schietta realtà dei fatti: la chiesa di Ognissanti era semplicemente la parrocchia di riferimento per le famiglie di entrambi. Vero è che i due sicuramente ebbero modo di conoscersi, sia per una banale questione di vicinato, abitando nello stesso quartiere e a pochi metri di distanza, sia per via delle numerose commissioni allogate al pittore dai Vespucci.

Ma non basta. Le analogie presenti tra i versi delle Stanze del Poliziano e alcune soluzioni adottate da Botticelli nei suoi più celebri capolavori. hanno indotto parte della critica a voler riconoscere le fattezze di Simonetta nel volto della dea nella Nascita di Venere o di una delle tre Grazie che danzano nella Primavera.

Nel Quattrocento, però, non era ancora diffusa l’usanza di posare dal vero per un pittore e di certo non sarebbe stato conveniente, per una donna sposata, farsi ritrarre nuda o quasi!

Il ritratto di Simonetta

Esiste allora un ritratto reale di Simonetta? Nella vita che Giorgio Vasari dedica a Botticelli, si legge che nella collezione di Cosimo I vi erano “due teste di femmina di profilo, bellissime; una della quale si dice che fu l’innamorata di Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo, e l’altra Madonna Lucrezia de’ Tornabuoni (…)”.  Potrebbe essere questo un indizio? In realtà Vasari stesso non ha certezze nell’identificare il soggetto (si dice che…) e inoltre potrebbe trattarsi di un’altra donna legata a Giuliano, magari di quella Fioretta Gorini che gli partorì il suo unico figlio, Giulio, il futuro papa Clemente VII.

Certo è che il pittore realizzò almeno un ritratto di Simonetta, come si evince dalla lettera a Lucrezia Tornabuoni che Piero Vespucci scrisse dal carcere delle Stinche il 12 gennaio 1480. In quelle righe, tra le altre cose, ricorda che lui e il figlio Marco avevano deciso di regalare a Giuliano, che si era presentato a casa loro dopo la morte di Simonetta, alcuni suoi vestiti e un dipinto che la rappresentava, “per cercare di placare il suo profondo dolore”.

In assenza di prove documentarie è impossibile identificare questo dipinto con uno dei ritratti muliebri botticelliani che sono giunti fino ai nostri giorni. In passato si è voluto riconoscerlo ora nel Ritratto di dama dello Städel Museum di Francoforte, ora in quello della Gemäldegalerie di Berlino o, ancora, nel Ritratto di giovane donna della Galleria Palatina di Firenze. È più probabile, però, che i tre rappresentino semplicemente una bellezza femminile ideale e idealizzata.

Simonetta o Cleopatra?

Al Musée Condé del Castello di Chantilly, in Francia, è conservato un dipinto, opera di Piero di Cosimo , che reca sulla base l’iscrizione in latino “SIMONETTA IANVENSIS VESPUCCIA”. Rappresenta una giovane donna di profilo, con i capelli raccolti in una elaborata acconciatura, impreziosita da perle e da gioielli. Intorno alla collana che porta al collo si snoda un serpente, che è quasi in procinto di mordersi la coda. Le fascia le spalle un elegante scialle colorato che non le copre, però, i seni, che si offrono allo spettatore nella loro nudità. Sullo sfondo vi è un paesaggio collinare, in cui, oltre gli alberi, si intravede il profilo di una città. Un cielo carico di nuvole incombe sul paesaggio.

Realizzato intorno al 1480, potrebbe trattarsi di una commissione medicea in memoria della bella Simonetta. Alcuni elementi del dipinto (il serpente, il cerchio da esso disegnato – allusione all’infinito -, gli alberi sulla sinistra privi di foglie e le nuvole che turbano il cielo azzurro) sono stati interpretati come simboli allusivi alla prematura morte della giovane, e alla contemporanea speranza di nuova vita.

Occorre però precisare che l’iscrizione è stata aggiunta posteriormente (forse nel XVI secolo) e che il ritratto, se pur rappresentasse Simonetta e non Cleopatra (come lascerebbe supporre la presenza dell’aspide), sarebbe comunque ideale, perché eseguito dopo la morte di lei e da un pittore ancora giovane, che certo non aveva avuto modo di conoscerla personalmente.

L’omaggio di D’Annunzio

Nonostante la scarsità di notizie e l’assenza di immagini certe a lei riferibili, una cosa è indubbia: il mito di Simonetta durò nei secoli. Anzi, a partire dall’Ottocento, trovò nuovo vigore, grazie anche alla riscoperta di Sandro Botticelli, che per oltre trecento anni (pare quasi impossibile pensarlo!) era caduto quasi completamente nell’oblio. L’interesse del mondo anglosassone, dei Preraffaelliti e di altri pittori, che si ispirarono alla sua estetica e al suo ideale di bellezza, riaccese i riflettori anche sul Rinascimento che, in un’epoca caratterizzata dal mito del Medio Evo, non sempre veniva letto in chiave positiva.

In Italia, a promuoverne una decisa rivalutazione, fu lo scrittore Gabriele D’Annunzio. Non a caso il Rinascimento gli fu di ispirazione nel tratteggiare molti personaggi letterari, tra i quali Alessandro Sperelli, il protagonista de Il Piacere (1889). Tra gli antenati dello Sperelli, infatti, decise anche di annoverarne uno che “scrisse per la morte della divina Simonetta, in coro con i dotti del suo tempo, una elegia latina, malinconica ed abbandonata ad imitazione di Tibullo”. Una piccola allusione, che testimonia l’intramontabilità del mito di colei che non ebbe uguali!