Alle porte di Firenze, alla sommità del Monte Acuto, sorge, imponente e silenziosa, la Certosa del Galluzzo. Costruita nel lontano XIV secolo per volere di Niccolò Acciaiuoli, essa fu luogo di ritiro di monaci ma anche meta di artisti, papi e grandi intellettuali.
Sommario
Le origini della Certosa e la scelta del Monte Acuto
Torniamo indietro nel tempo e saliamo sul Monte Acuto, in un luogo che dobbiamo immaginare, nel lontano XIV secolo, quasi totalmente isolato. Poco sotto avremmo trovato un borgo di poche case, oggi conosciuto come Galluzzo, costruito su un’importante strada che da Firenze conduceva – e conduce tutt’oggi – a Siena e Roma, la via Cassia. Un luogo appartato, solitario e fortificabile, distante dalla città quanto bastava per rispondere a uno dei criteri fondamentali per la costruzione di un “monastero certosino”: la ricerca di solitudine per una vita contemplativa e di preghiera. Il Monte Acuto era perfetto. E fu dunque scelto, date le sue caratteristiche naturali, per la realizzazione della Certosa, fortemente voluta, nonché finanziata, da un nobiluomo fiorentino, Niccolò Acciaiuoli.
San Bruno e la nascita dell’Ordine certosino
La prima Certosa era nata, su desiderio di quello che diverrà San Bruno, allo scadere dell’XI secolo nel cuore di un massiccio sulle Alpi francesi. Bruno era nato a Colonia e fin da giovanissimo aveva sentito la chiamata alla vita monastica. Dopo un inizio burrascoso, per le vicende che in quel periodo scuotevano la Chiesa, Bruno decise l’isolamento e con sei compagni andò a cercare un luogo solitario per erigervi un suo monastero. Lo ottenne dal vescovo di Grenoble, Ugo di Châteauneuf, che, in sogno, aveva avuto una visione: sette stelle che indirizzavano sette pellegrini a una valle solitaria nel cuore del massiccio che all’epoca si chiamava “Cartusia” – da cui il nome italiano di “Certosa” -, nel Delfinato. Per quel primo monastero, fondato nell’estate del 1084, si scelse un luogo di totale eremitaggio. La struttura che si andò a costruire fu subordinata alla regola monastica: da come il monaco viveva dipese, dunque, la pianta dell’edificio. Una regola semplice che sarà sempre la stessa per tutte le numerose “Certose” che, da quel momento in avanti, sorgeranno in tutta Europa.
Niccolò Acciaiuoli, finanziatore della Certosa
Membro di spicco dell’ambiente politico ed economico trecentesco, Niccolò Acciaioli era nato in Valdarno, a Montegufoni. Si era presto spostato a Firenze, entrando a lavorare nell’attività commerciale e bancaria della famiglia, già all’epoca molto fiorente. Sfruttando i legami che gli Acciaiuoli, grazie al loro Banco, avevano stretto con gli Angioini di Napoli, Niccolò si trasferì nella città partenopea, dove si distinse così tanto da ricevere prima il titolo di cavaliere da re Roberto d’Angiò, e, nel 1348, quello di Gran Siniscalco del regno di Napoli, nonché Viceré di Puglia, controllando di fatto gli affari di quello Stato per lungo tempo. Niccolò, però, non fu solo solo uomo politico, ma anche fine intellettuale ed umanista: non è un certo un caso che avesse stretto amicizie profonde, nella corso della sua vita, con letterati del calibro di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Insieme a questi lo troviamo infatti ritratto nello straordinario ciclo di affreschi dedicato agli Uomini illustri di Andrea del Castagno.
Il testamento del 1338
Fu a Napoli che Niccolò Acciaiuoli entrò in contatto con l’Ordine certosino. In quella città, infatti, si era dato inizio, nel 1325, alla costruzione della Certosa di San Martino per volere di Carlo d’Angiò, duca di Calabria e signore di Firenze nel 1326. A lavorare al primo impianto di quella struttura, profondamente trasformata nei secoli XVI e XVII, era stato chiamato l’architetto e scultore senese Tino di Camaino, già famoso per il Duomo di Pisa, e capomastro della corte angioina. Seguendo l’esempio della Certosa napoletana, Niccolò, uomo ormai ricco e potente, decise di fondarne una anche nella sua città natale. I primi documenti in cui venne espressa la volontà di creare un monastero dedicato a San Lorenzo Martire, risalgono al 1338. In quell’anno il nobiluomo stilò un primo testamento, in cui, facendo esplicita la preferenza per i Certosini, dichiarava che, per finanziare i lavori, sarebbero stati donati all’Ordine poderi e possedimenti nella Val d’Elsa, appartenenti fino a quel momento agli Acciaiuoli. In quei terreni i monaci avrebbero potuto organizzare -come di fatto avvenne- diverse fattorie che avrebbero sostenuto, nei secoli, tutti quei lavori, di ristrutturazione o abbellimento, che si sarebbero presentati.
L’inizio dei lavori
I lavori presero avvio nel 1341 e dovettero concludersi poco dopo la morte dell’Acciaiuoli avvenuta nel 1365. Come in tutte le Certose, anche in quella fiorentina gli spazi vennero definiti in base alle esigenze dell’Ordine: si andarono così a delineare la piccola chiesa, il Refettorio, la Sala del Capitolo e le celle per i monaci e, come vedremo, per i conversi. Niccolò aveva riconosciuto piena autonomia ai certosini, non rivendicando per sé o per la famiglia alcun diritto su quella struttura. Aveva, tuttavia, chiesto, ancora in vita, la possibilità di poter avere una sua cella all’interno del Monastero. Ma era impensabile per i Certosini, votati alla clausura, ospitare all’interno del loro Monastero chiunque non fosse dell’Ordine. Fu così che, durante una visita nel 1355, nacque l’idea, in Niccolò, di edificare accanto al Monastero, ma fuori dallo spazio sacro, un grande palazzo, con un giardino annesso, dove lui stesso avrebbe potuto passare serenamente gli anni della vecchiaia. Ebbe così vita il progetto di quello che ancora oggi distingue la Certosa di Firenze da ogni altra Certosa d’Italia e d’Europa: il palazzo Acciaiuoli.
Un progetto nel segno dell’Umanesimo fiorentino
Si è detto che Niccolò era uomo colto e familiare di grandi letterati. Non stupisce allora che, nelle sue intenzioni, il nuovo palazzo, da costruire accanto ma fuori dallo spazio sacro del Monastero, dovesse diventare, oltre che un luogo di riposo per se stesso, un vero e proprio “Palazzo agli Studi”. Nell’incipiente fermento dell’Umanesimo fiorentino del XIV secolo, infatti, l’Acciaiuoli, sensibile agli interessi culturali del momento, voleva accanto alla Certosa una sorta di studium per studenti laici in teologia, diritto canonico e filosofia. Il progetto era assolutamente all’avanguardia, diremmo oggi; ma anche profondamente contrario allo spirito monastico certosino. I lavori, infatti, allogati intorno al 1350 a Jacopo Passavanti e Jacopo Talenti, si interruppero bruscamente e, nel 1362, gli spazi vennero riconvertiti: il piano terreno si decise di adeguarlo a stalle per gli animali, mentre il primo piano divenne semplice magazzino.
Il palazzo Acciaiuoli, studium, deposito e poi Pinacoteca
Al primo piano di quello che originariamente doveva essere uno studium ma che invece divenne un deposito, è oggi allestita la Pinacoteca. In essa sono conservati tutti quei dipinti e affreschi provenienti dal Monastero che, per ragioni di cambiamento di gusto o di conservazione, vennero staccati dal loro contesto originario. Perché come ogni altro edificio religioso, anche questo luogo fu oggetto di grandi trasformazioni lungo i secoli. Passeggiando nell’ampia sala, sotto un bel tetto a capriate lignee, si potranno così conoscere le fattezze del nostro finanziatore attraverso il Ritratto di Niccolò Acciaiuoli di un artista non ancora riconosciuto della seconda metà del XVI secolo; si potrà ammirare una tavola raffigurante la Madonna col Bambino e santi di Raffaellino del Garbo o l‘Incoronazione della Vergine, attribuita a Mariotto di Nardo, raro esempio degli apparati tre-quattrocenteschi presenti un tempo in Certosa. Il ciclo più noto della Pinacoteca, tuttavia, è quello staccato dal chiostro grande, raffigurante le Storie della Passione e realizzato dal Pontormo intorno al 1523.
La prima sala della Pinacoteca e le Storie della Passione del Pontormo
Le cinque lunette affrescate dal Pontormo raccontano gli episodi salienti della Passione di Cristo: l’Orazione nell’orto, Gesù davanti a Pilato, la Resurrezione, la Salita al Calvario e la Deposizione dalla croce. Il primo progetto, databile al 1522 (stile fiorentino), venne presto abbandonato da Jacopo, benché fosse stato elaborato su suggerimento di un monaco che era stato anche Priore di quel luogo, Leonardo Buonafede. La versione definitiva si basò, invece, sul testo certosino intitolato la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, una meditazione dal carattere semplice perfettamente in linea con la vocazione contemplativa dell’ordine, forse più consono ai tempi di contestazione cui la Chiesa andava incontro in quel tempo. Il lavoro venne portato a termine dal Pontormo in tempo breve e le lunette furono sistemate nel Chiostro grande del Monastero. Staccate solo nel 1952 per essere musealizzate nell’odierna collocazione, esse si dimostrano oggi molto compromesse, sia per l’essere state troppo tempo all’aperto che per alcuni sfortunati interventi di restauro.
Pontormo: gli esordi
Jacopo Carucci, detto Pontormo dal luogo della sua nascita (Pontorme), fu uno dei pittori più importanti, influenti, inquieti ed eccentrici del XVI secolo. Nato nell’Empolese nel 1494 e figlio d’arte – il padre Bartolomeo era pittore formatosi nella bottega del Ghirlandaio -, Jacopo rimase ben presto orfano di entrambi i genitori e venne affidato alle cure della nonna materna, Brigida. Nel 1508 però la nonna, rimasta vedova due anni prima, non potendo più occuparsi del ragazzo, lo mandò a Firenze, affidandone la tutela al Magistrato dei pupilli. Dimostrata fin da bambino grandissima propensione al fare artistico, il giovane Pontormo frequentò dapprima la bottega di Leonardo – almeno si presume – e poi quelle di Piero di Cosimo e di Mariotto Albertinelli; finché, nel 1512, approdò in quella di Andrea del Sarto. Lavorando a stretto contatto con il “pittore senza errori”, il giovane Jacopo seppe presto distinguersi, tanto che già nel 1513 cominciarono ad arrivare le prime commissioni importanti. Nel giro di pochissimi anni, divenne pittore amatissimo dai Medici e dai più colti signori del tempo. Nacquero, in questo primo periodo, capolavori quali la Pala Pucci di San Michelino Visdomini, l’Adorazione Benintendi della Palatina o il Vertumno e Pomona della villa di Poggio a Caiano. “Qui – scrive Silvia Meloni Trkulja – il rovello di ricerca del pittore, documentato attraverso i numerosi disegni e nella lucida, nettissima trattazione del tema arcadico, si placa in un equilibrio poetico perfettamente raggiunto dal colore chiaro e vivido nell’abbagliante luminosità estiva”.
Gli anni della peste
Dopo la villa di Poggio a Caiano, arrivarono a Jacopo molte altre importanti committenze. Ma il destino volle che a Firenze scoppiasse una nuova e violenta epidemia di peste. E il Pontormo, come molti altri, fuggì dalla città, trovando accoglienza in Certosa, grazie all’intercessione del Buonafede. Fu questi a commissionargli le suddette cinque lunette. Pontormo ci lavorò prontamente e nel giro di poco tempo portò a termine l’impresa, un’impresa, tuttavia, che venne ritenuta non all’altezza della sua fama. Il giudizio più severo fu quello di Giorgio Vasari che, decretandone l’insuccesso, influenzò la critica per secoli. La presa di posizione dell’Aretino era dovuta alla scelta di Jacopo di ricorrere puntualmente, per ogni composizione, alle stampe della Piccola o della Grande Passione di Albrecht Dürer, perdendo la dolcezza delle opere precedenti. Restava difficile capire come “il pittore che a Poggio a Calano aveva trovato impressioni così semplici, spontanee e sensuali” potesse diventare qui “un puro cerebrale”, cercando non “dentro di sé il movente della sua arte”, ma nelle opere altrui, col risultato – diceva il Toesca nel 1943 – di farsi “ trascinare in piena astrazione”.
“Messosi dunque Jacopo a imitare quella maniera”
“Messosi dunque Jacopo a imitare quella maniera, cercando dare alle figure sue, nell’aria delle teste, quella prontezza e varietà che aveva dato loro Alberto, lo prese tanto gagliardamente, che la vaghezza della sua prima maniera, la quale egli era stata data dalla natura tutta piena di dolcezza e di grazia, venne alterata da quel nuovo studio e fatica e cotanto offesa dall’accidente di quella tedesca”
Vasari fu il primo a non riuscire proprio a giustificare l’interesse di Pontormo per l’arte nordica; lo studio del Dürer non era di fatto un male, ma Vasari vide in Pontormo un’assimilazione eccessiva che lo portava ad allontanarsi dalla maniera italiana. Difatti concluse: “Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e’ fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abandonare?”. Probabilmente il giudizio vasariano non riguardava solo le questioni stilistiche; il mondo religioso, infatti, reagiva all’arte nordica così come faceva con la dottrina luterana.
La seconda sala della Pinacoteca: le tele di Orazio Fidani
Abbandonando la prima sala, prima di spostarci nella successiva, non si potrà fare a meno di notare tutta una serie di piccole tavole che riproducono le lunette del Pontormo. A dispetto, infatti, del giudizio del Vasari, furono molti gli artisti che, nel tardo Cinquecento, si esercitarono sui lavori alla Certosa del maestro, dal Cigoli (Orazione nell’Orto) al Ligozzi (Cristo davanti a Pilato), da Giovan Battista Naldini (Salita al Calvario) all’Empoli (Resurrezione). Si pensi che, date le disastrose condizioni degli affreschi originali di Jacopo, prima dell’ultimo restauro avvenuto alla fine del secolo scorso, queste copie furono fondamentali nel fornire agli studiosi importanti informazioni sulla composizione prima del loro degrado. Ma lasciamo la prima sala ed entriamo in quella adiacente. Qui sono conservate opere del XVII secolo, provenienti per la maggior parte dalla chiesa del Monastero e dipinte per la maggior parte da un unico pittore, Orazio Fidani . Allievo di Giovanni Bilivert, pittore e orafo olandese molto amato da Ferdinando I de’ Medici, Orazio mostrò, fin da giovanissimo, grande interesse e dedizione per la pittura naturalistica, distinguendosi tuttavia, al contempo, anche nelle tavole e tele di soggetto sacro, dove spesso ricorrono atmosfere cupe e forti contrasti coloristici di indubbia ascendenza caravaggesca. Nell’ultimo periodo della sua attività, l’artista venne assorbito quasi completamente dai lavori in Certosa che fu certamente la sua impresa più complessa. Per committenza diretta dei monaci, il Fidani eseguì otto grandi tele che dovevano essere collocate al di sopra degli stalli del coro (due con gli evangelisti Matteo e Giovanni, quattro con i Dottori della Chiesa; due ottagoni con l’Esaltazione di San Bruno e l’Elemosina di San Lorenzo) e altri quattro dipinti più piccoli raffiguranti San Giovanni Battista, San Girolamo, Sant’Antonio Abate e San Benedetto. Nella stessa chiesa Orazio dette inizio, nell’agosto del 1653, lo vedremo, alla decorazione della volta.
Il primo ‘400 e l’ultima commissione privata: la Cappella di Santa Maria Nuova
I lavori in Certosa, dopo un lungo stallo, furono ripresi con grande fervore già a partire dai primi anni del XV secolo. In questo periodo fu infatti costruito l’ultimo edificio finanziato da privati, in particolare dal cardinal Agnolo Acciaiuoli. Fu costui che volle la costruzione, adiacente alla chiesa dedicata a San Lorenzo, di una cappella intitolata alla Vergine, una cappella che, in realtà, prese – e conserva ancora oggi – tutte le sembianze di una chiesa con pianta a croce greca. Essa venne costruita su un terreno che, di fatto, era esterno al Monastero e su cui la famiglia, che aveva rinunciato – come si è detto – a ogni diritto sulla Certosa, poteva edificare. Si dice anche che gli spazi di questo oratorio, così misurati e armonici, siano stati modello importante per Michelozzo, quell’artista che, formatosi nella Firenze di Brunelleschi e Donatello, fu esponente di spicco della cultura rinascimentale. Al suo interno la cappella conserva l’antico coro ligneo trecentesco, di cui torneremo a parlare, il Martirio di Santa Eulalia del bolognese Lucio Massari, chiamato appositamente dai monaci intorno al 1612 e un bel San Francesco che riceve le stimmate del fiorentino Andrea del Minga. Non solo, dalla cappella si ha inoltre accesso alla cripta dove sono le tombe del fondatore Niccolò Acciaiuoli e del citato cardinal Agnolo Acciaiuoli.
Il XVI secolo: il piazzale, la scalinata e la facciata della chiesa
Per tutto il XV secolo si andò avanti coi lavori che riguardarono vari ambienti del Monastero. Alla metà del 500, a seguito presumibilmente delle condizioni del Papato, ci si concentrò maggiormente sul cuore della Certosa, ovvero sulla chiesa e sugli edifici annessi. Di qui la realizzazione dell’ampio piazzale e della scalinata di accesso che, ancora oggi, collegano lo spazio sacro con l’esterno. La chiesa, iniziata nel 1341, era stata consacrata nel 1395; tuttavia nel XVI secolo fu completamente trasformata e le sue dimensioni quasi raddoppiate. Nella stessa epoca fu costruita la facciata in pietra serena da Giovanni Fancelli (1556), ornata dalle statue di San Lorenzo, patrono della chiesa e di San Bruno, patrono dell’Ordine, collocate entro due nicchie. Le nicchie superiori dovevano ospitare le statue di San Pietro e San Paolo, oggi andate perdute. Di gusto classico, la facciata si dimostra estremamente elegante, movimentata dal gioco di pieni e vuoti che sembra in parte richiamare le grandi architetture di Michelangelo Buonarroti. Il primo ordine presenta colonne addossate alla parete con capitelli corinzi e le due nicchie con le statue dei santi; il secondo ordine, in una sorta di prospettiva verticale, presenta, al posto delle colonne, paraste, altre due nicchie e la bella finestra centrale. L’ultimo ordine conclude con un bel timpano e due volute che sembrano richiamare alla nostra memoria il bel prospetto albertiano della basilica Santa Maria Novella.
Fuori dallo spazio sacro, un luogo per gli ospiti: la Foresteria
Ancora fuori dallo spazio sacro e quindi dal Monastero vero e proprio, è la Foresteria. Venne completata anch’essa, nelle fattezze attuali, tra il 1575 e il 1580, ma l’aspetto definitivo venne assunto solo alla fine del Settecento. È composta da tre grandi ambienti, detti anche Appartamento del Papa, perchè in questi locali vennero ospitati papa Pio VI, nel giugno del 1798, durante il suo viaggio verso l’esilio in Francia per volontà di Napoleone Bonaparte, e papa Pio VII, suo successore. La storia del Papato fu in questo periodo estremamente complesso. Il potere temporale dei papi, ci racconta la storia, era stato abolito e a Roma, il 15 febbraio 1798, era stata proclamata la Repubblica Romana da parte delle truppe francesi, che avevano invaso lo Stato Pontificio. Le feste civiche avevano soppiantato quelle religiose, gli alberi della libertà avevano sostituito le croci e i calvari e numerose opere d’arte avevano preso la strada di Parigi. Roma non era più “cristiana” e il citato papa Pio VI era appena appena morto in esilio, a Valence. Dopo l’elezione del nuovo papa, al secolo Barnaba Chiaramonti, Napoleone si sentì abbastanza forte per iniziare dei negoziati con la Santa Sede. Egli aveva capito – al contrario dei “rivoluzionari”– che nulla di durevole poteva essere realizzato senza il papa. Si arrivò così presto al Concordato: Napoleone diventò imperatore, mentre venne restaurato il culto cattolico. Nel suo nuovo ruolo politico, il Buonaparte invitò Pio VII a recarsi a Parigi per la cerimonia dell’incoronazione. Si mise dunque il papa in viaggio e, nel lungo tragitto, fu ospite per un breve periodo alla nostra Certosa. Ad oggi gli “appartamenti papali”, luogo significativo della Certosa, non sono visitabili dal pubblico, ma sappiamo esserci l’intenzione di un prossimo restauro e, di conseguenza, di una futura apertura.
Il Monastero: una struttura subordinata alla vita monastica
Entrando in chiesa si comprende subito che essa fu frutto di profondi rimaneggiamenti successivi alla sua costruzione, avvenuta tra il 1341 e il 1395. Ma prima di narrare le vicende di rifacimento dell’edificio, bisognerà soffermarsi sulle regole monastiche certosine che, come si è detto, regolano la struttura stessa. L’Ordine si caratterizza, fin dalla sua fondazione, per la ricerca di solitudine, attraverso la quale il monaco cerca ed entra in contatto con Dio. La particolarità dell’Ordine, tuttavia, risiede nell’unire alla vita eremitica quella cenobitica, secondo regole fisse. La vita del Monaco “eremita” si svolge essenzialmente nella solitudine ed ecco perchè, come vedremo, è di grande importanza la cella, vero e proprio eremo dove il monaco passa quasi tutto il suo tempo, dedicandosi alla preghiera, alla meditazione della Sacra Scrittura e al lavoro manuale. Anche le giornate sono scandite alla stessa maniera per tutto l’anno. Questa uniformità potrebbe sembrare austera, ma, secondo il pensiero certosino, libera l’anima da molte preoccupazioni, per permetterle di meglio fissarsi sull’essenziale. La solitudine viene interrotta solo per le preghiere comuni in chiesa, che si svolgono tre volte al giorno. Una vita diversa, seppur votata sempre alla preghiera, è quella del converso, che pure ha preso i voti, ma che svolge una vita più comunitaria, dedicandosi per la maggior parte della giornata al lavoro, svolto per lo più in rigoroso silenzio.
La suddivisione degli spazi
Dalla regola certosina si deduce facilmente la planimetria dei Monasteri: gli spazi più vicini al mondo esterno – in questo caso rappresentato dal piazzale – saranno infatti quelli occupati dai Conversi; gli ambienti più interni saranno invece occupati dai Monaci, le cui celle saranno sempre disposte intorno a un Chiostro grande; infine ci saranno i luoghi comuni, quali la Chiesa, vero e proprio cuore pulsante di ogni Certosa, il Refettorio che si aprirà su un Chiostro piccolo e la Sala Capitolare. Pur esistendo spazi comuni, Monaci e Conversi dovranno comunque stare separati. Pure nella comune preghiera. Ecco spiegato il perchè della divisione della chiesa in due distinti spazi: uno destinato ai Monaci e l’altro ai Fratelli Conversi.
La chiesa di San Lorenzo, anello di congiunzione tra cielo e terra
A partire dal XVI secolo si decise quell’ingrandimento della chiesa che le ha dato l’aspetto attuale: l’antica chiesa divenne così l’odierno coro dei Monaci e, laddove era una piccola corte trecentesca che fungeva da elemento di raccordo tra il Monastero e l’esterno, si andò a creare la “nuova chiesa” dei conversi. A dividere i due spazi, in maniera precisa e netta, venne edificato un elegante portale dallo scalpellino settignanese Simone di Bernardino Bassi, maestro largamente impiegato nelle grandi commissioni dell’epoca. Se da un punto di vista murario, l’ingrandimento cinquecentesco fu l’ultimo intervento, dal punto di vista decorativo, invece, la chiesa continuò a subire profonde trasformazioni. La chiesa dei Fratelli mostra infatti tutta una serie di decorazioni e arredi eseguiti nel XVII secolo, quali, ad esempio, le belle Acquasantiere poste all’ingresso. Tuttavia i lavori più importanti vennero eseguiti nel nuovo coro dei Monaci. Spostato il coro trecentesco nella cappella, come si è detto, di Santa Maria Nuova, occorreva realizzarne uno nuovo. Vennero così chiamati legnaiuoli esperti del momento, i figli di Giuliano di Baccio d’Agnolo e Domenico Atticciati, i quali, su disegno di Angelo Feltrini, lavorarono, intorno agli anni Ottanta, quei superbi stalli che, sbalzati con figure fantastiche e mascheroni mostruosi, sono tutt’oggi considerati il più alto raggiungimento dell’arte dell’intaglio del XVI secolo. Se ne contano diciotto, perchè il Monastero, progettato inizialmente per soli dodici monaci e un Priore, fu poi allargato ad accoglierne un numero leggermente superiore.
Le decorazioni marmoree, gli affreschi e lo splendido Ciborio
Contemporaneamente al bel pavimento in marmi policromi, costruito nel coro nel 1573 e nel presbiterio tra il 1591 e il 1594 e ispirato ai grandiosi tappeti marmorei della Roma antica, si procedette con la decorazione ad affresco dell’abside della chiesa, per cui si richiese la partecipazione di uno dei più importanti frescanti della fine del XVI secolo, Bernardino Barbatelli meglio conosciuto come Poccetti. Sulla parete di fondo si andarono così a raffigurare, con un linguaggio pittorico chiaro ma magniloquente, non senza inediti spunti naturalistici, Le esequie e l’Ascensione al cielo di San Bruno, mentre la volta venne destinata ad ospitare, nelle sue quattro vele, Santi e Membri illustri dell’Ordine certosino. Nello stesso tempo si realizzò la decorazione marmorea delle pareti absidali e si commissionò a Jacopo Piccardi lo splendido Ciborio, ancor oggi poggiato sull’altare intarsiato. A forma di tempietto, circondato da colonnine e sormontato da una cupoletta, esso rimane unico testimone dell’originale altare maggiore che sappiamo terminato nel 1594 dalle abili mani del Giambologna, autore anche delle otto statuette che un tempo ornavano le nicchie del detto Ciborio e che vennero trafugate all’epoca dell’Occupazione napoleonica. A tale proposito si racconta una storia curiosa: i monaci, avvertiti delle razzie perpetrate dai francesi, dipinsero di bianco le statue lignee poste in cima all’abside dell’altare, in modo che, sembrando esse realizzate in un materiale ben più pesante (il marmo), non divenissero oggetto di interesse delle truppe di Napoleone. L’inganno riuscì, decretando la conservazione in Certosa di quelle belle statue! Le volte delle due campate del coro dei Monaci, invece, vennero decorate ad affresco da Orazio Fidani, mentre alle pareti dovevano essere collocati quei dipinti dell’artista oggi conservati in Pinacoteca.
La Cappella delle Reliquie e la Sagrestia
Se gli affreschi del Poccetti nella zona absidale della chiesa stupiscono per la ricchezza e fantasia delle figurazioni, rese con un pennello svelto e veloce, altrettanto colpiscono le decorazioni della piccola cappella delle Reliquie che si apre sul fianco destro dell’abside. Dominata da un grande armadio, con al suo interno eleganti e sfarzosi reliquiari, la cappella venne affrescata con immagini di Martiri e Santi dal Poccetti, sostituito, alla sua morte, da quel Lucio Massari già citato nella Cappella di Santa Maria Nuova. La scelta non fu affatto casuale. Andrà infatti sottolineato come questo maestro, di origine bolognese e vicino alle nuove istanze promosse dai Carracci, mostrasse, in comunanza con Bernardino, da una parte la volontà di un ritorno al naturalismo e al classicismo di raffaellesca memoria, dall’altra una piena sintonia con i canoni stilistici postconciliari, che tendevano all’utilizzazione di una maniera pittorica chiara e fortemente comunicativa. Dirimpetto alla Cappella delle Reliquie si apre la Sagrestia, un piccolo ambiente dove si trovano i resti decorativi più antichi di tutto il complesso, realizzati da un artista non meglio precisato operante alla fine del XIV secolo: un Cristo benedicente, due Santi con cartiglio, un Angelo con la spada e una Annunciazione.
Gli ambienti comuni: il “corridoio del Colloquio”, il Refettorio e la Sala Capitolare
L’isolamento totale imposto ai Monaci dall’Ordine non escludeva, come si è detto, alcuni momenti vissuti in comunità, quali il pranzo comune durante le festività e l’ora settimanale di colloquio. A sinistra della chiesa si trova, infatti, un ambiente, di piccole dimensioni, dove i monaci potevano riunirsi una tantum e interrompere l’obbligo del silenzio. Lungo e stretto, il “corridoio del Colloquio”, come viene chiamato nei documenti, venne abbellito, sul finire del Cinquecento, da otto splendide vetrate a grisaille, realizzate a Genova da Paolo di Brondo e Gualtieri di Fiandra, con istoriati gli Episodi della vita di San Bruno, fondatore dell’Ordine. Attiguo al Parlatorio è un altro ambiente comune: il Chiostrino dei Monaci, vero e proprio fulcro dell’intero complesso monastico. Da qui infatti si aveva accesso – e si ha ancora oggi – al Refettorio, un ampio stanzone privo di decorazione alcuna, fatta eccezione per una serie di dipinti malamente conservati, nonché, tramite un breve corridoio, alla Sala del Capitolo, dominata, sopra l’altare, dalla Crocifissione di Mariotto Albertinelli firmata e datata 1506.
La Cena in Emmaus del Pontormo per il Refettorio
Si è detto che, nel 1523, per sfuggire alla peste che imperversava a Firenze, Jacopo Carucci detto Pontormo si rifugiò al Galluzzo dove si dedicò al ciclo di affreschi con le Storie della Passione nelle lunette del Chiostro grande. Al termine della realizzazione del ciclo, i certosini vollero commissionargli una grande tela destinata, molto probabilmente, al Refettorio. Il soggetto scelto la Cena in Emmaus. L’episodio, tratto dal Vangelo di Luca (24,13 – 35), si ispirò a un’incisione di analogo soggetto di Dürer. Come nell’artista tedesco, infatti, lo schema compositivo è incentrato attorno alla figura di Cristo, ritratto nell’atto di benedire il pane. L’improvvisa rivelazione ai discepoli, che lo riconoscono dal gesto, viene enfatizzata dal fascio di luce che ne illumina il volto. La mensa è evocata con pochi semplici elementi di grande naturalismo: la brocca di metallo, i vetri limpidi, il cane e i gatti che si nascondono sotto la tavola in attesa degli avanzi. Sullo sfondo emergono dall’oscurità i monaci certosini, chiamati ad essere testimoni dell’episodio sacro. Tra essi spicca il ritratto penetrante di Leonardo Buonafede, vecchio priore della Certosa, riconoscibile nel frate in piedi alla destra di Cristo. A differenza degli altri lavori svolti per il Monastero, l’opera colpì profondamente Giorgio Vasari che sottolineò la capacità di Jacopo di raccontare il vero “senza punto affaticare o sforzare la natura”, avendo ritratto “ritratto alcuni conversi di que’ frati, i quali ho conosciuto io, in modo che non possono essere ne più vivi ne più pronti di quel che sono”. E per chi si domandasse del grande occhio in alto, , simbolo di Dio Padre entro il triangolo trinitario, sappia che non era stato pensato dall’artista ma che venne dipinto successivamente per celare l’originale volto trifronte vietato dalla Controriforma.
Leonardo Buonafede e il suo sepolcro nel Capitolo
Nel 1545 si spegneva a Firenze, più che novantenne, Leonardo Buonafè o Buonafede, monaco, Priore del Monastero del Galluzzo, spedalingo di Santa Maria Nuova e vescovo di Cortona, nonché mecenate e committente di eccezione. Verso ogni istituzione che resse si distinse per le numerose commissioni artistiche; si pensi alle già citate lunette del Pontormo o a quella famosa Pala dello Spedalingo di Rosso Fiorentino che le parole del Vasari hanno consegnato alla storia. Sappiamo che, ancora vivente, nel 1539, lo stesso Buonafè seguì di persona i progetti del suo monumento funebre, affidandolo allo scultore Francesco Giamberti detto Francesco da Sangallo. La scelta ricadde su un sepolcro insolito, a metà tra una lastra tombale e un monumento funebre, una scelta che sicuramente è da ricercarsi nelle tradizioni funerarie certosine, che prevedevano – e prevedono – il semplice interramento dei defunti. Il luogo dove esser sepolto, invece, manifestò, fin da subito, in modo esplicito, la devozione di Leonardo per il Monastero e per l’Ordine. Considerato uno degli esiti più alti del Sangallo, la tomba dimostra tutta l’abilità dell’artista “nella capacità di giungere attraverso esatte connotazioni realistiche, alla creazione di un ritratto altamente idealizzato, la cui espressione è serena e distaccata”. Colpiscono, al contempo, i tormentati panneggi appiccicati alle membra, perfetto contraltare del raggelato espressionismo del volto, graffiato da incisive rughe d’espressione; la tendenza a scavare in profondità i piani del marmo fino a ottenere effetti di grande dinamismo chiaroscurale; o la capacità di raccontare, con descrittività quasi tattile, il bel broccato che avvolge il cuscino. Un capolavoro del Cinquecento fiorentino, insomma, nascosto nel cuore di quel Monastero che il Buonafede amò fino alla morte.
Il Chiostro grande e le celle dei monaci
Poco lontano dalla Sala del Capitolo, si apre il grandioso Chiostro, la cui creazione si deve sempre alla generosità del Buonafede che lo fece realizzare tra il 1491 e il 1520. Su ciascuna delle sessantasei colonne del loggiato, di chiara impronta rinascimentale, si fece apporre medaglioni con busti in terracotta, eseguiti dalle abili mani di Giovanni della Robbia e rappresentanti Personaggi dell’Antico Testamento, Apostoli, Santi, Evangelisti e Fondatori di ordini religiosi. Si tratta della più grande raccolta di robbiane situate in una stessa sede! In questo luogo, ancor oggi dominato dal silenzio e permeato di alta spiritualità, si aprono le diciotto celle dei monaci, in realtà piccoli edifici strutturati su più piani. Al piano del Chiostro si trovavano tre piccoli vani: il primo era munito di camino e di una dispensa che aveva anche la funzione di tavolo ribaltabile; il secondo era una semplice stanza da letto con la sola aggiunta di un inginocchiatoio; la terza una stanzetta da bagno. Se al piano inferiore erano le cantine, un pozzo per l’acqua e l’orto, al piano superiore, invece, il monaco aveva il proprio studio, dove passava la maggior parte del tempo quando non era dedito alla meditazione o alle preghiere. Accanto alla porta di accesso alla cella, inoltre, era un piccolo sportello che consentiva ai conversi di passare il cibo al confratello recluso.
Il Chiostrino dei Conversi
Se il Monaco aveva bisogno di assoluto silenzio e isolamento, il Converso, invece, aveva bisogno di abitare spazi vicini all’esterno, per ovvie necessità lavorative. La vita dei Fratelli ruotava attorno a un piccolo chiostro da cui si poteva scendere facilmente nelle cantine, dove erano le distillerie e altre officine, o uscire sul piazzale per raggiungere la falegnameria, e le diverse fattorie, che, per non turbare il silenzio indispensabile per raggiungere il “divino”, devevano essere necessariamente lontane dal Monastero. Di forma allungata e su due livelli, circondato da eleganti arcate a tutto sesto su colonne corinzie al pian terreno e ioniche al primo piano, il chiostrino venne realizzato intorno al 1484. Su questo si affacciavano – e si affacciano – le celle del Conversi, piuttosto piccole poiché essi, curando il funzionamento della Certosa, vi si recavano essenzialmente solo per dormire o per le preghiere giornaliere in solitudine.
La Certosa dalle Riforme napoleoniche ad oggi
I Certosini vissero nel Monastero del Galluzzo, più o meno felicemente, fino al 1810, anno in cui Napoleone Bonaparte, nell’ambito delle Riforme da lui promosse in ambito religioso, soppresse la Certosa. Soltanto nel 1819, con il ritorno dei Granduchi di Toscana, i Lorena, la comunità certosina vi potè tornare. Ma erano tempi burrascosi. Dopo l’Unità d’Italia, una legge del 1866, che andava nuovamente a sopprimere gli ordini religiosi, colpì anche i Certosini. I monaci, questa volta, però, si appellarono al re Vittorio Emanuele II e questi concesse loro, straordinariamente, di rimanere custodi del Monastero che, al contempo, venne dichiarato “monumento nazionale”. I Certosini rimasero al Galluzzo fino al 1958 quando, ridotti ormai a poche unità, si trasferirono nella Certosa di Farneta, nei pressi di Lucca. Furono quindi sostituiti dai Monaci Cistercensi di Casamari, la cui regola di vita, con una forte accentuazione comunitaria, permise una maggiore “apertura” della Certosa fiorentina verso il mondo. Per sessant’anni i cistercensi sono rimasti ad animare spiritualmente il Monastero, attivando, oltretutto, numerose iniziative, tra cui l’apertura degli ambienti alle visite e l’istituzione della Fondazione Ezio Franceschini, chiusa recentemente. Nel dicembre 2017 i Certosini hanno ceduto la custodia del luogo all’Arcidiocesi di Firenze che, a sua volta, l’ha affidata alla Comunità di San Leolino che oggi, con grande dedizione e passione, si impegna nel preservare il Monastero e le opere e lo spirito in esso conservati.