Sommario
La storia della villa
La villa di Castello, conosciuta anche come villa Reale e oggi sede dell’Accademia della Crusca, fu dimora dei Medici fin dal Quattrocento. Fu sotto il dominio della casata che essa raggiunse il suo massimo splendore, tanto negli interni, nei secoli fortemente trasformati, quanto negli ampi spazi verdi.
Le sue origini
Laddove oggi sorge la villa, era un tempo, fin dal XII secolo, una torre difensiva: da qui si potevano avvistare i nemici provenienti da nord, dall’Appennino, e darne prontamente menzione al quartier generale fiorentino. Si levava in un luogo chiamato Castello, il cui nome derivava dalla presenza di cisterne (castellum) di un acquedotto romano che qui aveva il suo tracciato.
Ben presto la torre, com’era consuetudine anche in città, venne destinata all’abitazione: vi si costruirono intorno vari ambienti e si andò a definire quello che i documenti chiamano “palagetto merlato”. Detta anche “Il Vivaio” per le grandi vasche di pesci collocate nella zona dell’attuale piazzale antistante la facciata, la casa appartenne a diverse famiglie, non ultima la casata dei Della Stufa che la abitò fino agli anni Settanta del XV secolo.
Fu nel 1477 che quel “palagetto” di campagna entrò nell’orbita medicea. Non sappiamo con certezza le ragioni che spinsero Lorenzo il Magnifico a suggerire ai due cugini del ramo cadetto, Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco dei Medici, ad acquistare quella casa, ma possiamo immaginare che uno dei motivi riguardasse proprio la sua posizione strategica e di conseguenza la sua funzione difensiva e militare.
Il primo periodo mediceo
I due Popolani dettero avvio ai primi importanti lavori di ampliamento della casa, donandole, nel giro di pochi anni, l’aspetto di una vera e propria dimora signorile. Come tale doveva essere certamente abbellita da cicli di affreschi e svariate opere d’arte. Se sappiamo con certezza che qui furono collocati due tra i più noti capolavori del Rinascimento, la Primavera e la Nascita di Venere di Sandro Botticelli oggi conservati alla Galleria degli Uffizi (Vasari, 1550), delle antiche decorazioni murali, invece, rimane oggi un’unica testimonianza nella lunetta – situata sulle scale a levante che conducono al piano nobile – attribuita a Raffaello dei Carli detto Raffaellino del Garbo. Questi si era formato nella scuola del Botticelli e di Filippino Lippi e, tra la fine del Quattrocento e gli esordi del secolo successivo, dovette essere artista particolarmente noto e apprezzato, se ebbe come allievi Andrea del Sarto e Agnolo Bronzino.
L’”Annunciazione” di Raffaellino del Garbo
La fama di Raffaellino lo portò a lavorare per le più importanti famiglie fiorentine, tra le quali ci furono sicuramente i Medici, come testimonia la citata lunetta dedicata al tema dell’Annunciazione. La Vergine, figurata sulla destra del riguardante, è in posa stante al centro della propria camera da letto e mostra il consueto atteggiamento di stupore; si porta infatti la mano al petto a testimoniare la sua meraviglia, mentre abbassa il volto come atto di sottomissione al volere divino. Di particolare interesse la parte raffigurante l’Arcangelo Gabriele e non solo per quello svolazzo delle vesti che richiama tanto alla memoria opere lippesche, ma soprattutto perchè alle sue spalle si apre un alto muro merlato, citazione puntuale dell’aspetto quattrocentesco della villa in oggetto.
I duri anni dell’ultima Repubblica e dell’assedio
Passata, per via ereditaria, a Giovanni dalle Bande Nere, la villa conobbe la sua migliore stagione con il figlio del mercenario, quel Cosimo I che, divenuto duca di Firenze nel 1537, farà della dimora il luogo d’elezione per la celebrazione della casata medicea, atto a ospitare i più importanti personaggi in visita a Firenze da tutta l’Europa. Prima tuttavia di vivere quella stagione di floridezza, la dimora passò un momento particolarmente difficile, come tutta Firenze verrebbe da aggiungere. Il motivo di tale difficoltà era legato a quelle vicende politiche che, allo scadere del secondo decennio del Cinquecento, portarono Carlo V d’Asburgo a mettere a ferro e fuoco la città di Roma (Sacco del 1527). Fu allora infatti che i fiorentini ostili alla dominazione medicea decisero di insorgere, di cacciare i Medici dalla città e di proclamare una nuova Repubblica. Fu l’ultima della storia ed ebbe oltretutto vita assai breve. Perchè le alleanze cambiarono rapidamente: Carlo V e Clemente VII si riappacificarono, ottenendo l’incoronazione papale l’uno e la riconquista di Firenze l’altro. Stabiliti i nuovi accordi, la città gigliata subì un lungo assedio e, dopo una strenua ma vana difesa, vide rientrare i Medici quali signori di fatto della città.
La villa di Castello, come molte altre, subì i nefasti eventi. Nel 1529, infatti, in odore di battaglia, la neonata Repubblica ordinò di distruggere case, monasteri e ospedali che si trovassero fuori dalle mura, per impedire così al nemico di trovare alloggi o costruzioni da fortificare. La nostra dimora si trovò dunque ad essere saccheggiata e incendiata, ma fortunatamente riportò danni minori rispetto alle altre ville del contado.
La rinascita con Cosimo I dei Medici
Quando nel 1537 il figlio di Giovanni dalle Bande Nere, appena diciottenne, venne chiamato a rivestire la carica di duca della città di Firenze, la villa tornò a rinascere. La ragione per cui Cosimo, appena insediatosi nel suo nuovo ruolo, decise subito l’ammodernamento della villa, non è dato di saperlo. Ci piace pensare però che a muoverlo in tal senso fosse l’affetto verso una casa dove aveva passato momenti felici nell’infanzia. Fatto sta che in quel luogo mise subito a lavorare le migliori maestranze presenti allora in città.
Andrà tenuto presente anche il desiderio del novello duca non solo di legittimare la sua carica, ma anche di evidenziare la fusione, nella sua persona, dei due rami della casata medicea: se infatti per parte di padre Cosimo era appartenente al ramo secondario dei Popolani, per parte di madre era discendente del ramo principale, essendo Maria Salviati nipote di Lorenzo il Magnifico. La villa divenne allora la manifestazione del potere di Cosimo e della grandezza della sua casata e, fatto assolutamente nuovo, tale celebrazione venne affidata non, come era consuetudine, a un ciclo di affreschi in villa, ma, come vedremo tra poco, al giardino. Con il nuovo signore, granduca di Toscana nel 1569, la dimora visse una delle sue stagioni più felici.
Interventi seicenteschi
Come spesso accade, la villa, tanto amata da Cosimo, perse poi di interesse con gli eredi, anche se, almeno fino alla metà del Seicento, continuò ad essere ammodernata e decorata in alcuni suoi ambienti. Se si deve a Ferdinando I, terzo granduca di Toscana, il prospetto dell’attuale facciata con il bel portale realizzato su progetto di Bernardo Buontalenti (1588-1592 ca.), fu don Lorenzo dei Medici, figlio del citato Ferdinando, a chiamare in villa, allo scadere degli anni Trenta del XVII secolo, Baldassarre Franceschini detto il Volterrano. Il giovane artista era già attivo per il Medici nella vicina villa della Petraia dove, dal 1636, si occupava di affrescare il cortile con i Fasti Medicei. Fu probabilmente la buona riuscita di questa impresa a far sì che venisse reclutato anche nella nostra dimora, dove, al piano nobile verso ponente, licenziò uno straordinario affresco allegorico raffigurante La Vigilanza e il Sonno.
La “Vigilanza e il Sonno” del Volterrano
Nelle pagine della Vita dedicata al Volterrano dal biografo Filippo Baldinucci si legge che il Volterrano “in uno spazio della volta, in veduta di sotto in su, colorì a fresco un suo bel concetto, cioè la Vigilanza e il Sonno risvegliato, per ordine di quella, da alcuni fanciulli, i quali con papaveri accesi ad una lucerna, gli affumicano le narici“.
Il tema venne scelto ad uso della destinazione originaria dell’ambiente, oggi anticamera del piano nobile, ma un tempo stanza “degli staffieri”, ovvero dei palafrenieri, pronti a servire a cavallo, in ogni momento, don Lorenzo.
Ecco che ben si spiega il racconto sul soffitto dove si potrà osservare la bella Vigilanza, affiancata dal simbolo consueto della gru col sasso nella zampa levata (pronta a destare le guardie in caso di pericolo lasciandolo cadere) e l’elegante figura del Sonno, alimentato dai fumi oppiacei del papavero, suo attributo fin dall’antichità.
Ci colpirà il linguaggio del Volterrano, fatto di morbidezza negli incarnati, di composizioni atmosferiche modulate da una luce calda e avvolgente e di modernissimi scorci prospettici.
Dai Lorena ai Savoia
Con la scomparsa di don Lorenzo, la villa venne affidata al nipote Giovan Carlo che, nonostante vi avesse distaccato parte della sua formidabile collezione di quadri di natura morta, oggi conservati nei più importanti musei fiorentini, non arricchì la dimora di decorazioni monumentali.
Salvo pochi altri interventi, dovuti in massima parte a Vittoria della Rovere e a Cosimo di Ferdinando II, la villa rimase ai margini per molto tempo, finchè passò, con l’estinzione della famiglia Medici, ai Lorena d’Asburgo che decisero importanti cambiamenti, tanto negli ambienti interni quanto, come vedremo, nel giardino. In villa i nuovi granduchi fecero decorare, nel primo XIX secolo, il salone al piano terra, oggi sala conferenze, con ariosi paesaggi toscani che si aprono illusionisticamente dietro un finto loggiato.
La vicina Villa della Petraia, nel frattempo, aveva assunto sempre più importanza, forse anche in virtù della sua posizione più elevata. Di fatto fu prediletta non solo dagli stessi Lorena, ma anche dal re Vittorio Emanuele II che, nel periodo di Firenze Capitale (1865-1871), scelse quella villa come sua dimora d’elezione.
Il Novecento e l’arrivo dell’Accademia della Crusca
Nel 1919, come molti altri beni, la villa fu donata allo Stato Italiano che, nei decenni a venire, la destinò a diverse funzioni: da ospedale di campo, durante la seconda guerra mondiale, a scuola elementare. Tuttavia le condizioni di evidente decadenza e degrado portarono alla decisione di un importante intervento di restauro che prese avvio intorno agli anni Sessanta. A conclusione dei lavori, la villa venne destinata a sede dell’Accademia della Crusca.
Fu così che quell’antica istituzione, che ci piace immaginarci come una anziana signora con la valigia sempre in mano, trovò finalmente un luogo in cui fermarsi stabilmente dopo tanti e tanti viaggi. La villa finalmente tornava agli antichi splendori.
Gli interni della villa
Con la sua semplice facciata a due piani e con le tipiche finestre inginocchiate del piano terreno, la villa si sviluppa intorno a un cortile, delimitato nei lati minori da due logge con pilastri di ordine tuscanico. Si suppone che un tempo anche il lato lungo del cortile che guarda verso il giardino dovesse aprirsi, almeno in un suo tratto, in un loggiato. Sappiamo infatti che Cosimo I aveva chiamato a lavorare in villa, in uno spazio al piano terra che fungeva da raccordo tra il verde e la villa (un loggiato appunto), uno dei suoi artisti prediletti, Jacopo Carucci detto Pontormo. A questi era stata affidata la decorazione, purtroppo andata completamente perduta, di un ciclo di affreschi raffiguranti il Ritorno dell’Età dell’oro e significativamente alludenti al nuovo governo della città.
Dal cortile della villa si aveva accesso, come in molti edifici fiorentini, a diversi ambienti, alcuni di rappresentanza, altri di servizio e altri ancora privati. Oggi, cambiata la funzione della dimora che è divenuta – come si diceva – sede dell’Accademia della Crusca, solo alcune stanze sono aperte al pubblico. Tra queste, la caratteristica sala delle Pale, cui si accede dal loggiato di levante.
La sala delle Pale e la nascita dell’Accademia
La sala delle Pale, un tempo ambiente di rappresentanza, racconta, con le sue 153 pale, la storia e la simbologia dell’Accademia della Crusca.
La nascita dell’Accademia si fa risalire al 1580: in quell’anno cinque letterati noti dell’epoca (Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bastiano de’ Rossi e Bernardo Zanchini) decisero di abbandonare l’Accademia Fiorentina, seria istituzione nata in seno al governo di Cosimo I, per ritrovarsi in serate conviviali dove si alternavano letture impegnate ad argomenti leggeri, bizzarri e inconsueti. A queste serate chiamate cruscate, termine che sottolineava la “frivolezza”, cominciò ben presto a partecipare un personaggio di grande spicco nell’ambito letterario, Lionardo Salviati, che ebbe il merito di trasformare questa brigata in una vera e propria accademia linguistica. Fu lo stesso Salviati a scegliere la simbologia del mondo del grano per la neonata accademia che, a partire da quel momento, avrebbe avuto il compito di separare il fior fiore della farina (la buona lingua) dalla crusca, secondo un modello di lingua che prevedeva il primato del volgare fiorentino, modellato sugli autori del Trecento.
Nel 1612 l’Accademia dette alle stampe la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, un testo rivoluzionario nel suo contenuto che divenne riferimento imprescindibile in tutta Europa.
Frullone, pale, gerle e sacchi: simbologia dell’Accademia
Se per simbolo dell’Accademia si scelse il frullone, lo strumento che serviva a separare la farina dalla crusca, la pala, quella per infornare il pane, divenne invece lo stemma di ciascun accademico. Ogni iscritto infatti doveva avere una propria pala e questa doveva essere composta dal nome accademico, da un’immagine e da un motto. I tre elementi costituivano l’“impresa” e precisavano l’“intenzione” e l’attitudine dell’Accademico rispetto al progetto complessivo dell’Accademia.
Curiosamente si stabilì anche che tutti gli oggetti e la mobilia dell’Accademia dovessero avere nomi attinenti al grano: ed ecco allora comparire le “gerle”, sedie realizzate con una sporta da pane rovesciata, con infilata una pala a fungere da schienale (l’aggiunta fu un’innovazione dovuta a Leopoldo de’ Medici); o, ancora, i famosi “sacchi”, ovvero quei mobiletti a forma di sacco che, negli scaffali interni, dovevano conservare la “farina”, cioè gli statuti, i regolamenti e altre scritture approvate dai censori accademici.
La glorificazione dei Medici: il giardino della villa
Dopo la lunga storia di trasformazioni della villa dal Quattrocento ai giorni nostri, non poteva mancare un capitolo su quello che è considerato il primo esempio di “giardino all’italiana” di tutti i tempi. A volerlo fu Cosimo I dei Medici, quel duca che amò tanto questo luogo da volerlo dotare di uno spazio verde, modernamente concepito, volto, attraverso gli arredi scultorei, alla glorificazione e celebrazione della propria casata.
Se per il progetto generale del giardino, che comportava anche un imponente impianto idraulico a derivare l’acqua dalla sovrastante sorgente della Castellina, il duca si rivolse a Niccolò Pericoli detto il Tribolo, per il complesso programma iconografico che doveva esaltare il ruolo di Cosimo quale pacificatore del nuovo ducato, si chiamò in causa Benedetto Varchi. I lavori presero avvio allo scadere degli anni Trenta del Cinquecento, ma si interruppero per la morte di Tribolo sopraggiunta nel 1550. La direzione dei lavori passò a Giorgio Vasari che tuttavia, sistemato quanto già fatto, non portò avanti il programma. Va anche detto che probabilmente l’interesse di Cosimo per quella villa fuori le mura era diminuito quando, nel 1549, aveva acquistato palazzo Pitti, dove, difatti, mise a lavorare tutte le maestranze già attive a Castello, Tribolo compreso.
Il selvatico di lecci, querce e cipressi: l’inizio del percorso iconografico
Il ricchissimo progetto decorativo, come ben si vede nella lunetta dedicatagli da Giusto Utens alla fine del XVI secolo, doveva avere inizio dal selvatico di lecci, querce e cipressi che si sviluppava – e si sviluppa – nella zona superiore del giardino. Qui, al centro di una grande vasca di raccolta delle acque, si erge il bronzeo Appennino di Bartolomeo Ammannati. Databile tra il 1563 e il 1565, l’opera raffigura un vecchio barbato e nudo, intento a ripararsi dal freddo con le braccia e non è un caso infatti che la statua sia spesso ricordata con l’epiteto “Gennaio”.
Dare inizio al programma decorativo con la personificazione dell’Appennino, che fisicamente si trova alle spalle di quella figura, racconta l’intento del Varchi nell’intero giardino: celebrare la Toscana, attraverso i suoi fiumi e i suoi monti, per onorare il nuovo governo del duca Cosimo. Ovviamente serviva un elemento unificatore: e quale miglior fil rouge dell’acqua?
La Grotta degli Animali
Il piano sottostante si legava al superiore attraverso le personificazioni dei Monti e dei Fiumi che dovevano essere collocati, entro nicchie, ai lati della Grotta rustica: delle diverse statue ne venne eseguita solo una, forse da riconoscere nel Fiume oggi conservato nella vicina villa Corsini. Eseguita in ogni minimo dettaglio, invece, la Grotta degli Animali o del Diluvio, fra le più celebri ancora oggi in Europa. La grotta, ideata dal Tribolo stesso e animata in origine da spettacolari giochi d’acqua a simulare una grotta naturale, mostra assemblati, sulle tre pareti, gruppi scultorei di animali in marmi policromi davvero stupefacenti. Animali che nella natura si azzufferebbero l’un l’altro, ma che, grazie al buon governo del duca, vivono pacificamente insieme. Il messaggio non poteva essere più chiaro.
L’antico labirinto, le fontane di Fiorenza e di Ercole e Anteo
Si apriva poco sotto, al centro di un labirinto, la Fontana di Fiorenza. Eseguita nel fusto e nelle vasche dal Tribolo con la partecipazione di Pierino da Vinci, suo fedele collaboratore, è dominata da una bronzea Venere eseguita da Giambologna intorno alla metà degli anni Sessanta del Cinquecento. Furono i Lorena a decidere il trasferimento della fontana nella villa della Petraia e a distruggere il labirinto per far posto alle due limonaie in muratura che ancora oggi delimitano il giardino.
E, infine, la Fontana di Ercole e Anteo, opera del Tribolo e di Pierino da Vinci, coronata dal gruppo bronzeo dell’Ammannati, anch’esso celebrativo della figura di Cosimo qui raffigurato nelle vesti del mitico eroe che, con astuzia e intelligenza, seppe uccidere il temibile Anteo.
Ultimo atto di glorificazione doveva essere quel ciclo sulla nuova Età dell’Oro dipinto da Pontormo di cui si è detto.
Le ultime trasformazioni
Se già nel XVII secolo il granduca Cosimo III andò ad alterare il giardino di Cosimo, peraltro mai terminato, con la costruzione di un giardino segreto, il cosiddetto “Ortaccio”, per la coltivazione del mugherino, rarità regalatagli dal re del Portogallo, i Lorena ne cambiarono, come si è visto, radicalmente il volto. Se nel 1828 si progettò una strada carrozzabile che collegasse direttamente le due ville medicee di Castello, pochi anni più tardi, sempre per commissione lorenese, Joseph Frietsch trasformò in parco “all’inglese” i terreni a monte e ai lati del giardino rinascimentale.