Francesco Stabili, meglio conosciuto come Cecco d’Ascoli è un personaggio di grande fascino, che ha vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo, un uomo che già tra i suoi contemporanei aveva raggiunto una certa notorietà grazie alle sue doti di medico, astrologo e poeta.

Una formazione nelle dottrine astronomiche

Poco si sa delle origini di Cecco ma secondo la tradizione nacque nella campagna ascolana nel 1269. Le prime notizie documentate lo vedono studente a Bologna, università che rivestiva un ruolo di primo piano in Europa nell’insegnamento dell’astronomia e dell’astrologia. Durante il Medioevo, infatti, lo studio di queste due discipline, entrambe considerate scienze, andava di pari passo: era ritenuto fondamentale conoscere gli astri, i corpi celesti e i loro moti ma anche l’influsso che esercitavano sui destini e sulle vicende umane. Per questo motivo veniva coltivato il legame che univa la didattica e la pratica delle dottrine astronomiche alle attività divinatorie vere e proprie. Un connubio non facile, poiché se è vero che le autorità politiche e militari ricorrevano spesso alle perizie astrologiche prima di prendere una decisione importante, allo stesso tempo l’interpretazione degli astri e dei loro influssi sulla attività umana e divina era in aperta contraddizione con la dottrina cattolica, che vi leggeva una limitazione del libero arbitrio.

Tra successi e condanne

Nel giro di pochi anni, Cecco divenne professore del prestigioso ateneo e diede alle stampe alcuni trattati in latino che riscossero un immediato successo: il Tractatus in sphaeram (1322-23), che venne assunto come testo fondamentale per l’insegnamento dell’astronomia, e il De principiis astrologiae (1323-24), commento a un’opera dell’astrologo arabo Alcabizio. Durante il suo soggiorno bolognese si dedicò allo studio e all’insegnamento ma anche all’elaborazione di pronostici per le autorità comunali, trovandosi così inevitabilmente coinvolto nelle vicende politiche cittadine e schierandosi apertamente per la parte popolare e per la fazione ghibellina, che sosteneva gli interessi imperiali e laici. Le teorie formulate nei suoi scritti e le idee che divulgava ai suoi studenti non tardarono ad attirare l’attenzione dell’Inquisizione. Nel 1324 il frate domenicano Lamberto da Cingoli pronunciò una severa condanna del suo pensiero, in particolare per l’importanza assegnata alla magia e all’astrologia nella determinazione delle vicende umane. Le conseguenze non furono però gravi, tanto che nel 1325 a Cecco venne affidata la cattedra ordinaria di medicina presso la stessa università. L’anno successivo decise comunque di lasciare la città, probabilmente per le inimicizie politiche sempre più numerose e per il rafforzamento del potere della fazione guelfa, sostenitrice delle iniziative papali, e a lui ostile.

Alla corte di Carlo d’Angiò

Accettò quindi di mettersi a servizio del duca di Calabria Carlo d’Angiò, da poco nominato signore di Firenze. Presso la sua corte rivestì il ruolo prestigioso di medico e astrologo personale del duca. E’ facile supporre che l’influenza che esercitava sul Duca attirò presto su di lui l’invidia e il sospetto degli altri cortigiani, in particolare pare quella di un altro celebre medico fiorentino, Dino del Garbo, che di certo avrebbe ambito a prendere il suo posto. Giovanni Villani nella sua Nova Cronica (1348) afferma infatti che “questo maestro Dino fu grande cagione de la morte del sopradetto maestro Cecco, riprovando per falso il detto suo libello, il quale avea letto in Bologna, e molti dissono che ‘l fece per invidia”. Ma a destare sospetto erano soprattutto le sue pratiche e le sue opere di astrologia, che mal si conciliavano con la politica di Carlo d’Angiò, rappresentante del partito guelfo e sostenitore quindi dell’operato della Chiesa.

L’inquisitore fiorentino

Nel settembre 1327 il tribunale dell’inquisizione di Firenze intentò contro di lui un nuovo processo. L’inquisitore, questa volta, era un frate francescano, fra Accursio, che la tradizione ricorda per essere stato il primo lettore pubblico di Dante, incarico che aveva ottenuto dalla Signoria poco dopo la morte del Sommo Poeta e che egli svolse ogni domenica nel Duomo di Firenze. Egli riprese gli atti e le carte di Bologna e passò al vaglio tutte le opere di Cecco d’Ascoli, ritenendo soprattutto “il suo libretto superstizioso, pazzo e negromantico sopra la Sfera, pieno di eretica falsità (…)”
Ancora una volta ci vengono in aiuto le parole di Giovanni Villani, che ben riassumono le motivazioni del processo a Cecco, che anche se “avea dette e rivelate per la scienza d’astronomia, overo di nigromanzia, molte cose future, le quali si trovarono poi vere” rimaneva comunque “uomo vano e di mondana vita ed erasi steso per audacia di quella sua scienza in cose proibite e non vere.”

La condanna a Santa Croce

Avendo rifiutato di abiurare e non potendo più contare sull’appoggio di Carlo d’Angiò, che non voleva inimicarsi papa Giovanni XXII, Cecco venne condannato come eretico al rogo. Ad essere onesti il cronista Marchionne di Coppo Stefani nella sua Cronica fiorentina (1378-85) ci fornisce una ragione un po’ diversa del mancato sostegno di Carlo di Calabria: “ma dicesi che la cagione perchè fu arso fu che disse che Madonna Giovanna, figliuola dello Duca, era nata in punto di dovere essere in lussuria disordinata. Di che parve questo essere sdegno al Duca, perchè non avrebbe voluto che fosse morto un tanto uomo per un libro”. Non il suo pensiero ma un suo oroscopo sarebbe allora la causa della sua prematura fine. La sentenza venne resa pubblica il 15 settembre 1327 nel coro di Santa Croce e il giorno seguente il condannato venne arso sul fuoco, insieme a tutte le sue opere.

Una premonizione diabolica

Una delle tante leggende che ha come protagonista Cecco d’Ascoli – nata sicuramente per la sua fama oscura di eretico, mago e negromante – vuole che il diavolo gli avesse preannunciato quando si fosse trovato tra “Africa” e “Campo dei fiori”. Condotto al patibolo fiorentino, eretto nei pressi di Porta alla Croce, non mostrava dunque alcun segno di preoccupazione, certo di trovarsi a molta distanza da quei luoghi che gli erano stati indicati. Ma informato che poco lontano da lì scorreva un fiumiciattolo dal nome Affrico e ricordandosi che l’antico nome romano di Firenze era Florentia, ossia la “città dei fiori”, capì infine che il suo destino era compiuto.

L’Acerba e la polemica con la Commedia

La morte gli impedì di portare a compimento L’Acerba, un poema allegorico in volgare noto per l’invettiva e le allusioni in chiave negativa alla poetica dantesca. Il titolo è una contrazione di “acerba età”, quella giovinezza che va plasmata attraverso la scienza e la filosofia naturale. Ed infatti nei suoi cinque libri Cecco presenta la sua visione del mondo e parla di astronomia, astrologia, alchimia e di filosofia aristotelica: “qui non si sogna per la selva oscura […] / Lascio le ciance e torno su nel vero / Le favole mi fur sempre nemiche”. Sostenendo dunque il primato della verità naturale e l’inoppugnabilità dell’astrologia e della scienza, attacca la Commedia “che finge immaginando cose vane” e si scaglia contro la concezione dantesca della fortuna e del fato. Forse proprio grazie a questa sua vena polemica, l’Acerba ebbe grande successo e una diffusione straordinaria, tanto che è seconda solo alla Commedia per numero di copie e manoscritti che sono giunti sino a noi.

Il rapporto con Dante

L’Acerba non è la sola opera in volgare di Cecco che ci è stata tramandata: vi è anche un piccolo corpus di sonetti che testimonia scambi diretti o influenze di rimando con altre grandi figure della poesia italiana del Duecento e del Trecento: Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Petrarca e ancora Dante Alighieri.
Aperta è la questione di una conoscenza diretta di Cecco d’Ascoli e Dante Alighieri, veleggiata in studi dedicati all’Ascolano dopo la sua morte. Angelo Calocci, umanista e vescovo jesino del Cinquecento, nell’esaminare la figura di poeta di Cecco ne sottolinea l’amicizia con Dante e afferma di aver esaminato alcuni sonetti che i due si scambiarono. Ed ancora, un secolo più tardi il gesuita Appiani, primo a dedicare una biografia a Cecco d’Ascoli, scrive che egli, prima di iniziare la sua avventura bolognese, fu a Firenze e che qui ebbe occasione di conoscere l’autore della Commedia prima che fosse mandato in esilio.

Una disputa finita in leggenda

A testimonianza del rapporto tra i due poeti, e delle loro differenze di pensiero, si tramanda anche una divertente storiella. Dante e Cecco si erano imbarcati in una disputa sulla forza dell’istinto e dell’abitudine. Il primo sosteneva la supremazia dell’arte e dell’educazione nel forgiare il comportamento individuale mentre il secondo riteneva più influente la natura. A dimostrazione del suo pensiero, Dante portò ad esempio un gatto che aveva ammaestrato a reggere tra le zampe una candela per illuminargli lo scrittoio. Cecco, allora, liberò due topi davanti all’animale, inducendolo a lasciar cadere la candela e a rincorrerli per la casa, dimostrando così la validità della sua posizione.

La Berta, una leggenda fiorentina

La fama di Cecco d’Ascoli non svanì con la sua morte, tanto che ancora oggi il suo nome è legato a una nota leggenda cittadina. Si racconta che durante il percorso che lo avrebbe portato al luogo del supplizio, il carro su cui viaggiava, esposto agli insulti e agli sberleffi del popolo, si fermò davanti alla chiesa di Santa Maria Maggiore, lungo l’attuale via dei Cerretani. Stremato, Cecco chiese un sorso d’acqua ma una donna, che stava osservando la scena da una finestrella del campanile, gridò a gran voce di non accontentarlo in alcun modo. Era certa infatti che grazie alle sue doti di alchimista avrebbe usato quell’acqua per salvarsi dalle fiamme del rogo. Risentito, Cecco si rivolse allora alla donna dicendole che sarebbe stata condannata a non levare mai più il capo da lì. Ancora oggi una testa in pietra, chiamata dai fiorentini “la Berta”, fa bella mostra di sé nel campanile. Si tratta in realtà di una testa di epoca tardo romana, murata per decoro e abbellimento nell’antica torre campanaria.