Entrati al giardino Bardini da via dei Bardi e percorsi i pochi gradini che separano l’antico tracciato della Cassia nuova dal piazzale da cui si dipana il parco voluto dal “principe degli antiquari”, si nota una piccola statua acefala che raffigura una Fauna che munge una capretta. Il marmo doveva far parte dello showroom del Bardini, viene da pensare. Niente di più errato. La scultura arriva dal mirabolante parco di Pratolino, sogno di Francesco I dei Medici.  

Una scoperta sensazionale

Nell’estate del 2001 giunge a Firenze una notizia che fa subito clamore: in una galleria parigina è all’asta un marmo che fa parte, senza ombra di dubbio, dell’apparato statuario dell’antico parco di Pratolino. A riconoscerlo è lo studioso James Holderbaum, appassionato conoscitore della scultura fiorentina del Cinquecento. Di quel gruppo non solo si riconosce la provenienza da uno dei luoghi medicei più noti e altrettanto compromessi della storia, Pratolino, ma si azzarda, a ragione, il nome del suo autore. E’ Valerio Cioli, dice Holderbaum, a eseguirlo nel lontano XVI secolo. Da qui, si mette in moto una macchina veloce che, nel giro di poco tempo, porta il marmo in esposizione a Firenze. Per lo studio dell’opera e la pubblicazione del libretto che l’accompagna, ci si affida alla penna della dott.ssa Vanessa Montigiani, allora laureanda all’Università di Firenze. Segue poi l’asta e il gruppo viene acquistato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze.
Collocato nell’attuale ubicazione, il marmo racconta non solo delle capacità tecniche raggiunte dagli scultori nel secondo Cinquecento, ma anche del luogo cui esso era destinato. Ed è proprio da qui che inizia, oggi, il nostro viaggio.

Pratolino, “giardino delle meraviglie”

Nel 1568 Francesco I dei Medici, figlio del noto granduca Cosimo, comprò dagli Uguccioni, nobile famiglia fiorentina che rivestiva alte cariche nel governo mediceo, una tenuta agricola rurale di circa venti ettari. Quella tenuta si trovava a Pratolino su un terreno impervio, sterile e privo di acqua. Verrebbe da chiedersi quale follia spinse il Medici ad investire su un luogo del genere. Ma in realtà furono proprio quelle caratteristiche a stimolare la fantasia di Francesco: quella terra di natura montuosa avrebbe mostrato la capacità dell’uomo nel plasmarla e nel renderla un luogo di delizie e di meraviglie.
Comprato il terreno, Francesco mise al lavoro l’amico Bernardo Buontalenti che non mancò di disattendere alle aspettative del granduca, creando, nel giro di un decennio, un parco che tutti i viaggiatori, da quel momento in avanti, non mancarono di visitare, riportandone sempre descrizioni entusiastiche. Pensate che l’acqua, inizialmente assente, diventò il motore e la ragione del parco. Come si fece? Convogliando dal vicino Monte Senario, attraverso un complesso sistema idraulico sotterraneo, ben dodici sorgenti!
Come giustamente notava il professor Zangheri in uno dei suoi tanti saggi sul parco, esistono tanti Pratolino diversi: c’è quello degli idraulici e degli ingegneri e quello degli scienziati; c’è il Pratolino degli umanisti e degli intellettuali e quello degli alchimisti e degli artisti; e infine, ma non per importanza, c’è il Pratolino di Francesco, il principe ombroso e malinconico che andiamo a conoscere.

Francesco, un uomo versatile

La storiografia con Francesco non è stata clemente: viene infatti spesso ricordato come un despota crudele, così poco amato dai suoi sudditi da trasformare la sua morte in un giorno di giubilo. Si racconta anche che fosse poco incline al governo e che avesse un temperamento malinconico, solitario e freddo. Non solo, le fonti ci dicono che Francesco aveva mostrato, fin da piccolissimo, grandi capacità di apprendimento, tanto che a soli quattro anni sapeva leggere perfettamente! Parlava molte lingue, tra cui lo spagnolo e il tedesco e, a differenza del padre, amava viaggiare.
Aveva una cultura vastissima che andava dalla medicina all’alchimia, sua segreta passione: amava passare le sue giornate chiuso in Fonderia a fare esperimenti e a trasformare la materia Era un esploratore, Francesco, e un curioso e fu proprio la voglia di sperimentare a guidarlo nella creazione di Pratolino, di un luogo dove natura e arte potevano incontrarsi senza soggiogarsi; un luogo dove l’uomo poteva finalmente ritrovare un contatto sincero e profondo con la natura e, più in generale, con l’Universo. E a tale proposito viene da ricordare le parole scritte da Cesare Agolanti nel 1590:

Qui l’Arte e la Natura / insieme a gara ogni sua grazia porge / e fra quelle si scorge / la grandezza dell’animo, e la cura / che le nutrisce, e cura / e fa splender più chiaro ogn’hor dintorno / di nuove meraviglie il bel soggiorno”.

Il giardino prende forma: il “barco degli antichi”

Il progetto del parco, che si estendeva dalle pendici di Monte Senario a valle, verso Firenze, prevedeva la suddivisione dello stesso in due zone ben distinte: il “barco degli antichi” e “il barco dei moderni”. Al centro, a far da cerniera tra i due, era un tempo la grandiosa villa buontalentiana che mostrava un’impostazione nuovissima, non fosse altro che per la mancanza del consueto cortile centrale da cui, normalmente, si dipanavano i vari appartamenti.
Il percorso iconografico, che doveva probabilmente raccontare dalla creazione dell’Universo alla vita dell’uomo moderno, con statue e fontane dedicate tanto al mito quanto alla quotidianità, aveva inizio, nel “barco di sopra” o “degli antichi” con la Fontana di Giove, colui che, mitologicamente parlando, è il governatore del mondo. Da qui, attraverso un labirinto dove erano – e sono ancora oggi – collocate, pur frammentarie, due grosse Spugne della Corsica, si giungeva al noto Gigante del Giambologna che, ancora esistente, ci immette appieno nel mondo stupefacente di Pratolino. E non solo per la sua stazza.

Gli automi, le statue che si muovono!

Alto quasi 14 metri, il Gigante fu realizzato dal fiammingo Giambologna in pochissimi anni. Inizialmente Francesco aveva chiesto allo scultore la personificazione di un Fiume, poi, in corso d’opera, cambiò idea, preferendo l’immagine di un Appennino, colossale e vecchio come tutte le montagne. Come fare? In realtà non fu un grosso problema, bisognava essenzialmente invecchiare la figura e questo l’artista riuscì a farlo applicando diverse spugne rocciose sulla figura, realizzata in muratura (perciò cava) e intonacata. Il risultato fu talmente strabiliante che pure l’artista stesso ne rimase sorpreso! Era riuscito, infatti, non solo a creare un vecchio seduto con la barba lunga e i capelli sugli occhi, dall’aria potente ma mite, ma aveva donato al personaggio persino il senso di movimento, impensabile per un’opera di quelle dimensioni. Quando si dice il talento!
Ma non finì qua. All’interno dell’Appennino furono infatti ricavate tre grotte: nella prima, ipogea, si trovavano alle pareti tre fonti, dedicate rispettivamente a Narciso, a Ercole e a un Satiro pastore. Nella grotta mediana troneggiava, al centro sopra una pila, la Fonte di Tetide, mentre nella terza era una piccola fontana con un vaso di diaspro e un fiore di corallo venuto dal Mar Rosso. Se i soggetti delle diverse fontane, tratti perlopiù dal mondo antico, erano piuttosto consueti, altrettanto non si può dire del loro movimento: sofisticati congegni idraulici, infatti, facevano muovere le statue, rendendole praticamente vive. Quale sorpresa dovettero destare quelle fonti nei visitatori dell’epoca! E fu così che il nome di Pratolino cominciò a viaggiare di bocca in bocca per tutta Europa.

La villa e il “barco dei moderni”

Lo stupore e la meraviglia non finivano nella pancia del Gigante, anzi, da qui iniziavano. Dopo aver percorso il grande prato che si apriva – e si apre – ai piedi dell’Appennino, un luogo pieno di “boschi, piante domestiche…e statue di uomini rari per virtù e di Dii de’ Gentili”, il percorso studiato da Francesco trovava continuazione nella villa, scomparsa al tempo dei Lorena. Similare alla dimora medicea di Poggio a Caiano per la presenza delle grandi scale a tenaglie, la villa buontalentiana presentava un numero incredibile di grotte, tanto stupefacenti quanto divertenti. Qui l’acqua giocava un ruolo essenziale: non solo muoveva le sculture, ma pioveva e spruzzava da ogni angolo, bagnando a sorpresa i visitatori.
I giochi d’acqua erano il motore anche del “barco dei moderni” che si apriva ai piedi della villa , verso valle, con il viale degli zampilli, così chiamato per la presenza, su entrambi i lati e per tutta la sua lunghezza, di svelti zampilli d’acqua a formare una sorta di pergolato. Ai lati del viale, a delimitare il perimetro del giardino, invece, file di vasche in pietra serena si rincorrevano l’un l’altra giù per la collina e concludevano il loro viaggio intorno a una grande peschiera dove al centro era collocata la bella Fonte della Lavacapo, oggi a Boboli.

Tra vialetti ghiaiosi ed alberi ad alto fusto

In mezzo a tanta acqua, ci si poteva perdere tra piante di varia specie, bassi siepi, alberi ad alto fusto e vialetti ghiaiosi. E proprio in uno di questi, che conduceva alla Grotta di Cupido, era posizionata, dinanzi al Narciso di Benvenuto Cellini, la Fonte della Fauna che munge una capretta di Valerio Cioli. Un’opera rara nel panorama della scultura fiorentina del secondo Cinquecento, non fosse altro che per la declinazione al femminile del consueto soggetto mitologico.
La Fauna sta dritta in piedi su una base rocciosa a massi sfaccettati: i suoi graziosi seni la rendono simile a una figura femminile, mentre la pelle delle cosce, coperta da un vello soffice e morbido, e gli zoccoli, duri e forti, la riconducono al mondo ferino. La spalla destra della figura, leggermente più bassa della sinistra, lascia scivolare il braccio, vigoroso ma delicato, che sostiene e munge una capretta, di cui si sono perse le zampe e la testa.
Ogni movimento è perfettamente bilanciato: “l’agitazione dell’animale – scrive la Montigiani – costringe le zampe della Fauna a muoversi, la destra un pò indietro, la sinistra in avanti; il braccio destro, in direzione opposta alla zampa corrispondente, va a cercare le mammelle della capretta, generando la torsione del busto che si inserisce nel regolato ed equilibrato calcolo di tensioni opposte”.
E’ un marmo, quello della Fauna, che, benché compromesso nella sua integrità, mostra indubbiamente la mano di uno scultore maturo, sicuro e originale. D’altronde, Francesco I a Pratolino si circondò di artisti tra i più capaci. E Valerio Cioli, autore dell’opera in oggetto e di molte altre sculture presenti nel parco, capace lo era senz’altro!
Cioli era nato a Settignano intorno al 1529. La sua prima formazione era avvenuta in famiglia, ma si era presto aggregato all’equipe del Tribolo attiva nel giardino della villa medicea di Castello. In seguito, non tardarono ad arrivare importanti commissioni: Cosimo I dei Medici, ad esempio, gli affidò, tra i tanti incarichi, l’esecuzione dei ritratti dei nani di corte, Morgante e Barbino, mentre Giorgio Vasari lo volle per la realizzazione della Scultura della Tomba di Michelangelo in Santa Croce.
La chiamata da parte del granduca Francesco nel mirabolante giardino delle meraviglie di cui si è detto, non fu che il consolidamento della fama e della carriera di Cioli.
Purtroppo i grandi giorni di Pratolino, delle sue statue e delle sue tante fonti, sarebbero diventati presto un lontano ricordo.

Bibliografia:

V. Montigiani, Fauna che munge una capretta. Il ritorno inatteso di un’opera di Valerio Cioli per la villa di Francesco I de’ Medici a Pratolino, Firenze, 2001