Sommario
Era l’estate del 1491
E’ una storia fatta di quotidianità, di amicizie, liti e invidie, quella che oggi racconteremo. Un episodio che è passato alla storia e che valse a uno dei protagonisti addirittura l’esilio dalla città di Firenze. Tutto ebbe inizio un pomeriggio d’estate del 1491. Quel giorno il sedicenne Michelangelo Buonarroti si trovava a studiare nella basilica fiorentina di Santa Maria del Carmine. Copiava, probabilmente, i celebri affreschi di Masaccio nella cappella Brancacci e ciò con “tanto giudicio” da meravigliare tutti quanti, artisti e maestri.
Michelangelo adolescente nel giardino di San Marco
Pur adolescente, Michelangelo era già molto ammirato, tante erano le lodi nei suoi confronti che la sua autostima era cresciuta a dismisura! Grazie alla raccomandazione, si pensa, di Domenico Ghirlandaio, il maestro che lo aveva accolto presso di sé come apprendista, il giovane Buonarroti era stato accolto nella nuova scuola d’arte del giardino di San Marco diretta dallo scultore Bertoldo di Giovanni ed era entrato nelle grazie di Lorenzo il Magnifico che lo aveva introdotto non solo nella sua casa, crescendolo insieme ai suoi figli, ma anche nell’ambiente dei più noti intellettuali e filosofi della città.
Un’accademia ante litteram
Lorenzo il Magnifico, si sa, fu, tra i membri della famiglia Medici, uno dei più colti e intraprendenti mecenati e collezionisti. Secondo alcune fonti, messe in discussione da una parte di critica, allo scadere del settimo decennio del Quattrocento, Lorenzo volle allestire un giardino con le sculture antiche e moderne appartenenti alla casata, il cosiddetto giardino di San Marco. Si doveva trovare nel “quartiere mediceo”, poco distante dal palazzo della famiglia di via Larga, costruito poco tempo prima da Michelozzo su incarico di Cosimo il Vecchio, e accanto al neonato convento di San Marco, anch’esso nato intorno al 1440 per volontà del pater patriae. Si pensa che, nelle intenzioni del Magnifico, questo luogo dovesse rivestire il ruolo di un’accademia ante litteram, una sorta di scuola, di vera e propria palestra aperta ai giovani artisti che avevano così la possibilità di esercitarsi e confrontarsi con l’antico.
Un Fauno con troppi denti
Famoso l’episodio del Fauno che, svoltosi secondo leggenda nel giardino di San Marco, pose le basi per l’amicizia tra l’adolescente Michelangelo e il Magnifico. Si racconta infatti che un giorno, in quel giardino, il Buonarroti notasse “la testa di un Fauno in vista già vecchio, con lunga barba e volto ridente, ancor che la bocca per l’antichità appena si vedesse o si conoscesse quel che si fusse”. Al giovane artista questa scultura piacque così tanto che decise di riprodurla in marmo. “Con tanta attenzione e studio si pose a ritrarre il Fauno, che in pochi giorni lo condusse a perfezione, di sua fantasia suplendo tutto quello che ne l’antico mancava, cioè la bocca aperta a guisa d’uom che rida, sì che si vedea il cavo d’essa con tutti i denti (…). In questo mezzo venendo il Magnifico per vedere a che termine fusse l’opera sua, trovò il fanciullo ch’era in torno a ripulir la sua testa, e accostatosegli alquanto, considerata primieramente l’eccellenza dell’opera e avuto riguardo all’età di lui, molto si meravigliò; e avenga che lodasse l’opera, nondimeno, motteggiando con lui come un fanciullo, disse: «Oh, tu hai fatto questo Fauno vecchio e lasciatigli tutti i denti. Non sai tu che a’ vecchi di tal età sempre ne manca qualcuno?”. Michelangelo prese molto sul serio le parole del Magnifico e “restato solo, cavò un dente al suo vecchio di quei di sopra, trapanando la gengiva, come se ne fusse uscito colla radice, aspettando l’altro giorno il Magnifico, con gran desiderio”. Quando Lorenzo vide che i suoi suggerimenti erano stati seguiti, si decise “d’aiutare e favorire tanto ingegno“. Fu l’inizio di una bella amicizia.
Un’opera giovanile: la Battaglia dei centauri
Conosciutolo dunque al giardino di San Marco, il Magnifico prese a cuore il giovanissimo Michelangelo e lo portò a vivere nella propria casa. Ogni giorno il ragazzo pranzava alla mensa del Signore di Firenze e qui ebbe la possibilità di conoscere uomini nobili e grandi personalità. Michelangelo era coccolato da tutti ma soprattutto “dal Magnifico, il quale spesse volte il giorno lo faceva chiamare, mostrandogli le “sue gioie, corniole, medaglie e cose simiglianti di molto pregio, come quel che lo conosceva d’ingegno e di iudicio”.
In quegli anni anche Agnolo Poliziano frequentava la casa di Lorenzo; il letterato aveva grande stima del giovane Michelangelo, “molto lo amava e di continuo lo spronava, ben che non bisogniasse, allo studio”. Ascanio Condivi, biografo del divino maestro, racconta che una volta Poliziano “gli propose il Ratto di Deianira e la Zuffa de’ Centauri, dichiarandogli a parte per parte tutta la favola”. Fu così che nacque quella straordinaria Centauromachia in rilievo, riconosciuta nel marmo conservato in Casa Buonarroti, che fu giudicata così perfetta da sembrare un’opera non di un ragazzo, ma di un maestro con alle spalle larghissima esperienza. L’amico e biografo del maestro così ricorda: “mi rammento udirlo dire, che, quando la rivede, cognosce, quanto torto egli habbia fatto alla natura a non seguitar l’arte della scultura, facendo giudicio per quel opera, quanto potesse riuscire”.
Accade il fattaccio
Ed eccoci tornati a quel pomeriggio d’estate del 1491. Stando alla testimonianza di Benvenuto Cellini, stava Michelangelo insieme a Pietro Torrigiano, un altro promettente allievo del giardino di San Marco, nella basilica di Santa Maria del Carmine, probabilmente a studiare Masaccio nella cappella Brancacci. Che il giovane Buonarroti, come tanti artisti prima e dopo di lui, si esercitasse sul grande maestro del primo Rinascimento, è testimoniato da una serie di disegni fortunatamente pervenutici, quali il San Pietro dal Pagamento del tributo o la sanguigna del Louvre raffigurante Adamo ed Eva dalla Cacciata dei Progenitori.
Non sappiamo con esattezza cosa successe quel giorno alla cappella Brancacci né cosa Michelangelo disse al Torrigiano per scatenare la sua reazione, ma riuscì a farlo infuriare così tanto che l’amico non riuscì, racconta lui stesso a Benvenuto Cellini, a resistere alla tentazione di rifilargli un pugno.
Pietro Torrigiano, scultore e soldato
Pietro Torrigiani o Torrigiano nacque a Firenze nel 1472 e, come molti giovani artisti, si formò nel giardino di San Marco, sotto la guida di Bertoldo di Giovanni. Se all’inizio fu tra i prediletti del Magnifico, l’arrivo di Michelangelo cambiò decisamente la sua posizione. Secondo il Vasari furono il risentimento per la situazione creatasi in quel giardino e la gelosia per il giovanissimo Buonarroti, a determinare il fattaccio, quel pugno, ovvero, di cui si è parlato. Dopo l’esilio da Firenze, il Nostro si trasferì a Roma, collaborando con Pinturicchio alla decorazione della nuova residenza di papa Niccolò V. Divenne poi soldato di ventura, militò coi fiorentini nella guerra di Pisa, con Cesare Borgia in quella di Romagna, coi francesi e Piero de’ Medici in quella di Napoli e si trovò alla battaglia del Garigliano, il 28 dicembre 1503. Ma anche in mezzo alle armi ebbe alcuni intervalli artistici e ne lasciò traccia, ad esempio, a Siena, dove realizzò una statua di San Francesco d’Assisi per l’altare della cappella Piccolomini.
Torrigiano tra l’Inghilterra e la Spagna
Nel 1510 venne chiamato a lavorare in Inghilterra, dove ottenne, finalmente, grandissimo successo. La prima opera cui mise mano fu il noto Monumento funebre di Enrico VII e di Elisabetta di York destinato all’abbazia di Westminster e completato nel 1517. Le commissioni cominciarono a fioccare, tanto che, quando il re Enrico VIII lo incaricò del proprio sepolcro, avendo troppe opere cui mettere mano, Pietro tornò a Firenze a cercare aiuti. Si rivolse anche a Benvenuto Cellini che però rifiutò perentoriamente, non volendo mischiarsi con “quei bruti degli inglesi”.
Nel 1521, orami artista di fama internazionale, si spostò in Spagna, prima a Granada, poi a Siviglia, dove ebbe incarico di realizzare diverse sculture per il monastero di San Girolamo. Nel 1522 ebbe nuovamente problemi con la giustizia, questa volta con il Tribunale dell’Inquisizione. I motivi ancora oggi non sono chiari, ma, stando alle parole vasariane, pare che il Nostro, sentitosi beffato dal duca d’Arcos che gli aveva promesso una cifra importante per l’esecuzione di una Madonna col Bambino – cifra corrisposta solo in parte -, “con grandissima collera andò (il Torrigiano) dove era la figura che aveva fatto per quel Duca, e tutta guastolla“. Accusato di eresia, morì nelle prigioni spagnole “in tanta maninconia (…) molti giorni senza mangiare“, poco tempo dopo la sua carcerazione.
Un pugno colpisce il volto del “divino maestro”
Si è detto che non sappiamo con esattezza cosa successe quel giorno del 1491 alla cappella Brancacci, ma racconta lo stesso Torrigiano che gli “…venne assai più stizza che ‘l solito e, stretto la mana, gli detti sì grande il pugno in sul naso, che io mi sentì fiaccare sotto il pugno quell’osso e tenerume del naso come se fusse stato un cialdone: e così segniato da me resterà insin che vive”. Michelangelo, secondo leggenda, svenne e giacque sul pavimento col naso rotto e il petto coperto di sangue. Portato di corsa nel palazzo di via Larga che era divenuto ormai la sua casa – oggi palazzo Medici Riccardi -, venne prontamente curato ma, come pronosticato dal suo assalitore, la storpiatura rimase a segnare per sempre il volto del Buonarroti.
Segnato a vita Michelangelo, segnato a vita il Torrigiani
Se Michelangelo aveva di che piangere, non rise molto nemmeno l’irascibile Torrigiani. Che, proprio a ragione del suo gesto avventato, subì addirittura l’esilio da Firenze. Anche se alcune fonti ricordano, in verità, che fu lo stesso sventurato a lasciare di sua spontanea volontà la città. Di certo il Magnifico, venuto a sapere dell’incidente ai danni del suo protetto, dovette andare su tutte le furie. Segnato a vita Michelangelo da quel pugno; ma segnato a vita anche Torrigiani, al punto che la sua reale grandezza si disperse, come si è visto, tra l’Inghilterra e la Spagna dove morì in prigione condannato per eresia. Iroso per la vita, verrebbe da concludere!