Capita che gli allori della fama vengano concessi non solo a grandi eroi o a personaggi straordinari ma anche ad uomini semplici. E’ questo il caso del Piovano Arlotto, prelato della Firenze del Quattrocento, che affrontò la vita con un sorriso e che seppe farsi apprezzare dai contemporanei (e non solo) per la sua sottile arguzia e la prontezza di spirito. Protagonista di burle e facezie, frequentatore di osterie così come di palazzi di sovrani e signori, divenne personaggio della letteratura popolare.
Sommario
Un nome, un destino
Arlotto fu figlio della società mercantile ed imprenditoriale della Firenze tardomedievale e quattrocentesca. Il padre, Giovanni Mainardi, era notaio ma, con grande disonore della famiglia, venne più volte rinchiuso nel carcere delle Stinche a causa dei debiti.
Arlotto nacque probabilmente nel 1396 e venne avviato alla carriera mercantile. Dopo aver compiuto studi generali in campo letterario e aver appreso i fondamenti dell’aritmetica, trovò impiego come lavoratore dell’Arte della Lana. All’età di ventotto anni decise di cambiare completamente carriera. Vestì la tonaca e, nel 1424, ottenne da papa Martino V i benefici sulla chiesa di San Cresci a Macioli, di cui rimase responsabile fino a pochi anni dalla morte.
L’assegnazione della parrocchia mugellana non lo indusse a condurre una tranquilla vita di campagna: il suo spirito irrequieto lo spinse a più riprese a compiere lunghi viaggi e la sua convivialità lo indusse a mantenere un’assidua frequentazione con Firenze. D’altro canto, lo stesso nome che gli era stato imposto alla nascita, era rivelatore della sua intima natura: sembrerebbe derivare, infatti, dal provenzale “arlot”, che significa ribaldo, gaglioffo, vagabondo!
Parroco a San Cresci
Nella gestione della Pieve di San Cresci, Arlotto dette prova di essere abile amministratore tanto che, pur avendola trovata in uno stato di quasi totale abbandono, riuscì a promuoverne il completo restauro. Il progetto venne affidato alle sapienti mani di Giuliano da Maiano e Bernardo Rossellini e finanziato dalla famiglia Neroni, che ne deteneva il patronato.
Il suo intervento non si limitò solo alle migliorie sulla chiesa: riuscì ad incrementare notevolmente anche le rendite della pieve, portandole dagli iniziali 40 fiorini annui, agli oltre 150 che raggiunse alla sua morte!
Cappellano sulle galee fiorentine
Fu forse la sua formazione mercantile a spingerlo a imbarcarsi sulle galee fiorentine nella veste di cappellano. Un’occasione ghiotta non solo per recare conforto alle anime dell’equipaggio ma anche, pare, per gestire direttamente alcuni affari e commerci personali. I viaggi per mare lo portarono a sbarcare nelle principali città costiere della Campania e della Sicilia e a soggiornare anche per diversi mesi nelle città nordeuropee, ricevendo più volte l’onore di essere ricevuto da re e dignitari. Arlotto partecipò dunque alla grande avventura fiorentina per il dominio sul mare, iniziata dopo la conquista di Pisa (1406) e l’acquisto di Livorno (1421).
Firenze e il mare nel Quattrocento
Ogni anno, almeno fino al 1459, salparono dal porto pisano una galea alla volta della Sicilia e della Catalogna, una verso la Barberia (l’Africa settentrionale), due destinate alla Romania e altrettante per le Fiandre e l’Inghilterra. Le galee venivano assegnate ad un mercante attraverso un’asta pubblica che si teneva sotto la Loggia dei Lanzi oppure alla Loggia del Mercato Nuovo. Il mercante, che avrebbe caricato le sue mercanzie sul vascello ma che sarebbe rimasto sulla terraferma, doveva anche arruolare l’equipaggio, composto dagli ufficiali (il capitano, il commissario di bordo, il notaio e lo scrivano) e dai marinari, uomini armati e artigiani: una ciurma di oltre duecento uomini che certamente l’Arlotto non aveva alcuna difficoltà ad intrattenere ed assistere grazie al suo ottimo carattere!
La tomba del piovano
Arlotto ebbe una lunga vita e trascorse i suoi ultimi anni a Firenze, nello Spedale dei Preti, che sorgeva a poca distanza da piazza San Marco, lungo l’attuale via San Gallo. Questa antica istituzione era stata fondata già nel 1311 per volere del vescovo Antonio Orso, con lo scopo di dare alloggio ai preti di passaggio in città, e rimase attiva fino al Cinquecento, quando il granduca Cosimo I dei Medici decise di concederla in uso agli arazzieri che aveva chiamato in città affinchè la trasformassero in abitazioni private. Rimane ancora esistente l’antica chiesa dell’ospedale, intitolata a Gesù Pellegrino ma più nota con il nome di “oratorio dei Pretoni”. Al suo interno si trova la lapide (un rifacimento ottocentesco) della tomba del Piovano Arlotto, morto il 26 dicembre 1484 e qui sepolto. Fu lui stesso a dettare l’epigrafe da apporre alla sua tomba, anch’essa rivelatrice dell’ironia del personaggio: “Questa sepoltura a facto fare il piovano Arlotto per se et per tucte quelle persone le quali drento entrare vi volessino”.
Un best seller del Cinquecento
Alla morte del piovano, una persona a lui molto vicina decise di raccogliere in un manoscritto le burle e le facezie di cui fu protagonista e che già passavano di bocca in bocca all’interno delle mura fiorentine. Il testo venne dato alle stampe per la prima volta a Firenze intorno al 1515 ma nel giro di un ventennio ne furono fatte almeno una dozzina di nuove edizioni. Nè il suo successo era destinato a scemare, tanto che a metà del Cinquecento il letterato Anton Francesco Doni affermò con un certo sgomento che “si stampano più Piovani Arlotti che Aristoteli”! Un vero e proprio best seller, che venne anche tradotto in francese e in tedesco.
Il piovano Arlotto, uomo “di sottile ingegno e buono naturale” divenne così una figura proverbiale che ben incarnava il gusto tipicamente fiorentino per la battuta pronta e lo scherzo salace.
Uno spaccato della società quattrocentesca
Le vicende del piovano Arlotto sono raccontate sulle sfondo della Firenze del Quattrocento e ci permettono di immaginare la grande animazione delle vie cittadine, i personaggi che frequentavano taverne e osterie ma anche le piacevolezze e la convivialità della sfera medicea e la vita dell’alto clero. I racconti travalicano anche le mura cittadine e ci lascia intravedere la realtà della pieve di campagna, con il lavoro umile e duro dei contadini e le condizioni spesso di miseria del suo popolo. Accompagnano il lettore oltre i confini della Signoria fiorentina, per spingersi in paesi lontani, nell’incontro con popoli che hanno usi e costumi diversi.
Non mancano riferimenti a personaggi dell’epoca: al santo vescovo Antonino Pierozzi, “uomo di somma bonità e dottrina”, a Piero il Gottoso Medici, al re di Napoli Alfonso d’Aragona e a Edoardo IV di Inghilterra.
Un uomo dalle tante sfaccettature
Leggendo le facezie ed i motti (in tutto oltre duecento) si può ricavare un ritratto del carattere dell’Arlotto. E anche se è evidente che la raccolta ha bonari fini educativi e moraleggianti, scivolando talora nell’apologia, non mancano però le situazioni in cui il nostro prete di campagna non fa certo la figura del santo! Lo troviamo alle prese con una prostituta “grassa e grossa e corpulenta e assai formosa di corpo e di viso” (facezia IV), ruba il pesce a un senese “più gagliardo di parole che di fatti” (facezia XI) e ancora sottrae “campanelle da usci, chiavistelli, arpioni, toppe e chiavi, e di molti altri ferri” al piovano di Cercina (facezia XXXIII). E dire che nella breve biografia che precede il testo con le burle, l’autore precisa che “essendo di buona coscienzia attendeva con tanta carità alla cura delle anime che tutti li popolani assai lo laudavano. … Non era litigatore, non contenditore, né mai ebbe questione con alcuna persona”.
Il Piovano Arlotto nelle rime di Lorenzo il Magnifico
La fama dell’Arlotto è comprovata dal fatto che venne menzionato in altri testi quattrocenteschi, quali, ad esempio, Il Morgante e le Frottole di Luigi Pulci. Lo ritroviamo anche tra l’improbabile parata di bevitori del Simposio (o I beoni), poemetto in terzine di Lorenzo de’ Medici che richiama, in modo ironico, la Commedia di Dante Alighieri. Tra gli uomini che accorrono all’osteria di Rifredi per assaggiare il vino della botte appena spillata, “un che mangiato par dalla marmeggia / soggiunse, e s’egli avesse un fuso in bocca / vedresti il viso proprio di un’acceggia”. Ed ecco che le parole del Magnifico ci vengono in soccorso per immaginare la fisionomia del piovano, dal volto tanto magro che pare consumato da un verme parassita (la marmeggia) e così aguzzo da assomigliare a quello di una beccaccia (l’acceggia). Una descrizione ben lontana dal comune tipo del prete di campagna, dal viso tondo e rubicondo!
In questa folle corsa per gustare il nuovo nettare, il piovano non è solo: tra i più incalliti beoni fiorentini Lorenzo il Magnifico include anche Agnolo Poliziano, Botticelli e il padre di Amerigo Vespucci, Nastagio.
Il piovano Arlotto in pittura
Le burle del piovano ispirarono una serie di dipinti tra Seicento e Settecento, molti dei quali andati perduti. Il primo ad affrontare tale soggetto fu probabilmente il pittore Giovanni da San Giovanni. Durante il suo soggiorno a Roma volle cimentarsi con una scena “di genere” riconducibile alle sue origini fiorentine, La burla dei cacciatori (1627 ca), appartenente alla Collezione Scarsdale di Kedleston Hall. Commissionata dal cardinale Francesco Barberini venne poi donata dall’artista a Giovan Francesco Grazzini. La facezia racconta della vendetta del piovano Arlotto nei confronti di alcuni cacciatori, rei di aver abusato troppo a lungo della sua ospitalità. La varietà di espressioni dei personaggi, il sorriso falsamente ingenuo del prete, la costernazione dei cacciatori e la paura quasi grottesca degli animali, ebbero grande successo, tanto che a metà del Settecento la manifattura Ginori decise di trarne una versione in commesso lapideo.
La burla della botte in Galleria Palatina
Nei depositi delle gallerie fiorentine si conservano tre opere (La burla dei notai, La burla del cieco e l’asino e la Burla del porco), ancora non attribuite mentre in Galleria Palatina fa bella mostra di sé la Burla della botte, dipinta da Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, intorno al 1640. In una luminosa giornata, un’allegra brigata di preti è ospite alla tavola di un signorotto in una villa della campagna fiorentina. Il piovano Arlotto, sulla destra, è appena tornato dalla cantina con una caraffa di vino ma vuole vendicarsi del padrone di casa, che ha mandato lui a prendere il vino non curandosi della sua avanzata età e delle tante scale che avrebbe dovuto affrontare. Il Volterrano immortala il momento in cui l’Arlotto comunica di non aver chiuso il rubinetto della botte: tra l’ilarità generale, il padrone di casa – preoccupato dello spreco – si alza di tutta fretta, rovesciando addirittura la sedia. La tela, che colpisce per la grande immediatezza della scena e la vivacità dei gesti e delle espressioni, venne commissionata dal nobiluomo Francesco Parrocchiani ma entrò a far parte delle collezioni medicee pochi anni dopo la sua esecuzione, tanto che il cardinal Giovan Carlo commissionò al Volterrano altre due burle.
I dipinti perduti del Volterrano
Di queste ulteriori opere,oggi perdute, ce ne dà notizia Filippo Baldinucci nelle sue Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua del 1681: si trattava della burla dell’Osteria della Consuma e di quella di Ser Ventura, da alcuni studiosi identificata con l’esemplare (di bottega) conservato al Musée des Beaux-Arts di Rouen. Nella prima, il piovano Arlotto, bagnato e infreddolito, giunge all’osteria della Consuma ma non riesce a scaldarsi al focolare perché già occupato da un gruppo di “villani indiscreti”. Si avvicina allora all’oste e, mostrandogli un sacchetto bucato, si finge amareggiato e racconta (ad alta voce, in maniera che tutti lo possano sentire) che lungo la strada una gran quantità di monete gli è scivolata via da quel buco. Così, mentre tutti si allontanano alla ricerca del piccolo tesoro, l’astuto prete può finalmente godere del calore del fuoco in tutta pace.
L’altro dipinto raffigurava lo scherzo giocato a ser Ventura, un prete amico del piovano. Colto dai brividi di freddo della febbre, il poveretto non riesce in alcun modo a scaldarsi, nonostante sia stato coperto con tutti i panni che vi sono in casa, “fino colla gonnella della serva”. Esasperato dalle continue richieste di nuove coperte e delle accuse di insensibilità dell’amico malato, Arlotto, con l’aiuto di alcuni contadini, lo ricopre infine con un gran lastrone.
La fortuna nel Settecento
Le burle del piovano Arlotto continuarono ad essere apprezzate e rappresentate anche nel Settecento, tanto che sappiamo di un ciclo di nove tele eseguito da Giovanni Domenico Ferretti (1692-1768) per la villa di Giovanni Sansedoni a Basciano, nei pressi di Monteriggioni, ispirato alle opere originali del Volterrano.
In aggiunta alle copie tratte dalle versioni seicentesche, che talora vengono alla luce dal mercato antiquario e dalle aste, si segnala anche la serie di stampe e disegni acquarellati realizzata dal pittore e incisore fiorentino Giuseppe Piattoli, attivo alla fine del secolo.
La rivista dell’Ottocento
Un’ulteriore testimonianza della figura leggendaria del piovano si ebbe negli anni del Risorgimento.Tra il 1858 e il 1862 venne pubblicato a Firenze un nuovo mensile letterario e politico, sulle cui pagine scrissero anche personalità di spicco, quali Giuseppe Mazzini e Victor Hugo. L’impronta satirica che si volle dare alla rivista influenzò di certo la scelta del titolo: “Il Piovano Arlotto. Capricci mensuali d’una brigata di begliumori”; segno evidente che il prete fiorentino continuava ad incarnare quell’ideale di sagacia e di umorismo per il quale era divenuto noto ancora in vita.