La statua equestre, ossia la rappresentazione di una o più figure a dorso del proprio destriero, fu uno dei soggetti più diffusi nella scultura greco-romana. Nel Rinascimento, con la ritrovata attenzione per l’individuo e la sua celebrazione, gli artisti si cimentarono in una nuova lettura di questo antico soggetto, unendo ai forti connotati eroici l’attenzione per il vero e per il dato naturale. Ancora oggi a Firenze ne sono rimasti splendidi esempi.

Un’antica tradizione

Una statua equestre, in particolare se in bronzo dorato, era il massimo onore che potesse essere attribuito a un essere umano e a Roma, durante l’età imperiale (27 a.C. – 476 d.C.), tale onore era riservato solamente all’imperatore. Nell’Urbe, fin dall’antichità, era rimasta visibile la statua equestre in bronzo di Marco Aurelio, l’unica giunta a noi praticamente integra. In realtà sappiamo che quando venne fusa se ne potevano ammirare ben ventidue! Posizionate in luoghi preminenti, come ad esempio nei fori, avevano la funzione di celebrare il potere dell’imperatore, immortalato nel suo ruolo di comandante e protettore del popolo.

La statua di Marco Aurelio a Roma

La maggior parte dei bronzi antichi monumentali sono andati perduti perché fusi in epoca medievale per poter riutilizzare il metallo. La statua di Marco Aurelio si salvò solo perché erroneamente identificata come un monumento al primo imperatore cristiano, Costantino (285-337 d.C.). Tale identificazione rimase indiscussa fino al 1464, quando il Platina, prefetto della Biblioteca vaticana, corresse il secolare errore. Non conosciamo la sua collocazione originaria ed è anche incerta la datazione, che oscilla tra il 176 d.C., data che segna il trionfo di Marco Aurelio per la vittoria riportata sulle popolazioni germaniche, e il 180 d.C., anno della morte dell’imperatore.  A partire dall’VIII secolo la statua si trovava nell’area antistante il palazzo lateranense. Fu Paolo III Farnese a voler spostare il “caballus Constantini” sul Campidoglio, dove Michelangelo lo trasformò nel punto focale della piazza da lui concepita (1539).

Una fusione magistrale

Marco Aurelio è rappresentato con la mano destra tesa in avanti, intento a domandare il silenzio per poter parlare alla folla. Siede con fermezza in groppa al suo cavallo, che procede al passo. L’imperatore indossa abiti civili, che sottolineano il suo alto rango, ed è rappresentato in età matura, con il volto segnato da rughe sotto gli occhi e intorno alla bocca, e incorniciato dai ricci e dalla barba. Grande attenzione è data anche alla descrizione del cavallo, dalle proporzioni poderose. che volge la sua testa verso un lato, così da allontanarla dall’asse centrale e dare maggiore rilievo al volto dell’imperatore. La tecnica di fusione è magistrale, tanto che, sebbene sia la figura dell’animale che quella del cavaliere siano entrambe composte da diversi pezzi, fusi separatamente e poi successivamente uniti tra di loro, è quasi impossibile percepire la linea di giunzione tra le parti. Molti artisti fiorentini ebbero modo di apprezzare questa statua equestre durante i loro soggiorni romani o attraverso le varie repliche che circolavano. Sappiamo, ad esempio, che nel 1465 il Filarete, ne fece una copia in bronzo di ridotte dimensioni per Piero di Cosimo de’ Medici, oggi conservata a Dresda.

La testa di cavallo Medici Riccardi

A Firenze, però, era presente nelle collezioni medicee, forse già all’epoca di Cosimo il Vecchio, un altro modello a cui ispirarsi: una testa di cavallo d’arte greca, appartenente ad una statua equestre andata perduta. Il magnifico bronzo, che oggi è annoverato tra i capolavori del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, è datato alla seconda metà del IV secolo a.C., tra la fine dell’arte classica e l’inizio dell’ellenismo. L’estremo naturalismo della resa scultorea, l’accentuato realismo dei dettagli anatomici, particolarmente apprezzabile nella descrizione dei crini, delle narici dilatate, delle vene e delle pieghe cutanee, decretarono una grandissima fortuna della protome Medici nel Rinascimento. La testa disegna un leggero scarto verso sinistra, segno che evidentemente il cavaliere era ritratto nell’atto di tirare la briglia per arrestare il passo del cavallo. L’animale manifesta il suo malcontento per tale gesto, piegando l’orecchio sinistro all’indietro. Anche le grinze sul collo e al garrese testimoniano il movimento di frenata. Nella seconda metà del XVII secolo la testa del Cavallo Medici, che era stata confiscata dalla Repubblica fiorentina nel 1495 ed era rientrata in possesso della famiglia nel 1512, venne restaurata da Bartolomeo Cennini e trasformata in bocca di fontana per il giardino di Palazzo Medici.

Il monumento a Giovanni Acuto di Paolo Uccello

Nel 1436, quando la Cattedrale fiorentina si apprestava ad essere finalmente consacrata da papa Eugenio IV, gli Operai di Santa Maria del Fiore decisero di commissionare una nuova memoria per il condottiero di origini inglesi John Hawkwood, italianizzato in Giovanni Acuto. Il coraggioso capitano di ventura, che aveva condotto alla vittoria l’esercito fiorentino durante la battaglia di Cascina (1364), era stato sepolto con tutti gli onori a Santa Maria del Fiore alla sua morte, avvenuta nel 1393. Agnolo Gaddi e Giuliano Arrighi erano stati chiamati a realizzare un affresco ad ornamento della sepoltura. L’Acuto non poté però riposare in pace: il re d’Inghilterra Riccardo II (1367-1400) chiese ed ottenne di avere indietro le spoglie del suo suddito. L’affresco commissionato nel 1436, andava così a sostituire quello precedentemente realizzato, probabilmente considerato ormai “superato”, e ben si inseriva nel progetto di celebrazione delle virtù civili all’interno della chiesa più importante di Firenze. Per apparire ancora più monumentale, l’opera venne realizzata a monocromo (o verdeterra), così da simulare il bronzo, il materiale che fin dall’antichità era associato all’idea di prestigio e preziosità. Fu dunque il pittore Paolo Uccello (1397-1475) a realizzare sulla parete sinistra della Cattedrale quello che è, a tutti gli effetti, il primo monumento equestre fiorentino.

La sfida all’antico

Cavallo e cavaliere poggiano su un’alta base, costituita da una sorta di altare con ampie mensole che racchiudono gli stemmi dell’Acuto e che sorreggono un sarcofago con l’iscrizione dedicatoria in latino. Sulla base è apposta anche la firma dell’artista “PAVLI AVGELLI OPUS”.  Il condottiero, che impugna con una mano il bastone del comando mentre con l’altra regge le briglie, è rappresentato in armatura mentre siede con la schiena eretta sul suo cavallo. Gli copre il capo un’ampia berretta e sulle spalle gli pende un mantello. Guarda dritto davanti a sé, come se stesse sfilando imperturbabile – e forse poco partecipe – tra la folla. La derivazione dal modello romano del Marco Aurelio è innegabile, ad esempio nell’andatura del cavallo, che incede ad ambio, con la zampa destra sollevata. Parimenti è riconoscibile l’impronta personale dell’artista, che fece degli studi di prospettiva il centro del suo pensiero. Mentre infatti l’ampio basamento è visto da sotto in su, il gruppo composto dal cavaliere e dal suo destriero sono rappresentati secondo una visione frontale. Inoltre l’intera rappresentazione è pervasa da un certo astrattismo, esaltato dalla ridotta tavolozza cromatica e dalla geometrizzazione delle forme, evidente soprattutto nel corpo del cavallo. Notevole è inoltre lo studio della luce, che entra da sinistra, come la luce naturale che effettivamente filtra dal rosone centrale della chiesa.

“Sarebbe questa opera perfettissima”

L’affresco che ancora oggi noi possiamo ammirare è la seconda versione che realizzò Paolo Uccello, poiché la prima non aveva incontrato il favore della committenza, e fu pertanto costretto a distruggere il cavallo e il condottiero e a ricominciare l’opera.  Giorgio Vasari (1511-1574) nella raccolta delle Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, prima opera moderna di storiografia artistica, scrisse che l’opera di Paolo Uccello “fu tenuta ed è ancora cosa bellissima per pittura di quella sorta”. Ma non potè fare a meno di annotare con un certo sconcerto che “se Paolo non avesse fatto che quel cavallo muove le gambe da una banda sola, il che naturalmente i cavagli non fanno perchè cascherebbano (il che forse gli avvenne perchè non era avvezzo a cavalcare, né praticò con cavalli come con gl’altri animali) sarebbe questa opera perfettissima”.

Verso un nuovo modello: Donatello e il Gattamelata

Nel 1447, all’interno della sua bottega padovana, lo scultore fiorentino Donatello (1386-1466), iniziò la fusione in bronzo della statua equestre dedicata a Erasmo da Narni, detto il Gattamelata (1370-1443), uno dei più celebri condottieri italiani. Il monumento era una commissione della vedova, Giacoma da Leonessa, che desiderava un monumento funebre per il marito, da erigersi accanto alla Basilica del Santo dove si trovava la cappella di famiglia, in un’area della piazza dove allora era presente un cimitero. La realizzazione della statua rappresentò forse la sfida più grande della carriera di Donatello, da un punto di vista tecnico, formale e stilistico. Desiderando confrontarsi con l’antico, Donatello dovette misurarsi con la tecnica della fusione a cera persa, da secoli non più utilizzata per le sculture monumentali. Le proporzioni più grandi del naturale, inoltre, lo obbligarono a trovare soluzioni per la resistenza e l’equilibrio del gruppo. Assolutamente innovativa fu la scelta di collocare il gruppo in posizione rilevante sulla pubblica piazza, sopra ad un ampio piedistallo che ricorda un sarcofago. Sappiamo con certezza che Donatello, in gioventù, aveva trascorso un lungo periodo a Roma (tra il 1402 e il 1404) durante il quale, in compagnia dell’amico Brunelleschi, aveva avuto occasione di ammirare i grandi capolavori dell’arte classica, tra cui il colossale bronzo del Marco Aurelio. A Firenze, inoltre, era sicuramente venuto in contatto con la splendida testa di cavallo dell’amico Cosimo il Vecchio.

Una monumentale effigie a cavallo

Partendo dai due modelli antichi, Donato realizzò un monumento precursore di tutti quelli che lo seguirono, in cui all’attenzione per il realismo si unisce una ricerca di introspezione psicologica. Il condottiero, alla cui vita pende una lunga spada, è ritratto mentre impugna il bastone del comando; a differenza dei modelli romani e greci, siede su una sella e poggia i piedi nelle staffe, entrambe invenzioni della modernità. Il corsetto dell’armatura è invece all’antica, con la testa di Gorgone al centro del petto. Completano la decorazione il fregio con putti musicanti che corre lungo la cintura e le teste virili sulle frange metalliche. Il volto del condottiero, fiero e imperturbabile, è descritto nella sua maturità, in un delicato equilibrio tra immagine idealizzata e ritratto fisiognomico. Alla ferma solidità del condottiero si contrappone il movimento del cavallo, che nello scarto della testa rivolge lo sguardo verso il basso, a catturare l’attenzione dell’osservatore. Anche nell’animale le istanze realistiche, evidenti nelle narici dilatate e nelle vene rigonfie, convivono con la rappresentazione idealizzata, soprattutto nella geometria delle forme, che non può non ricordare il Giovanni Acuto della Cattedrale fiorentina. La zampa anteriore sinistra è sollevata e, per assicurare la stabilità al gruppo, Donatello adottò l’elegante soluzione di appoggiare lo zoccolo sopra una palla di cannone, simbolo del dominio sulla terra.

Il primato dei Fiorentini

L’opera di Donatello aprì la strada alla scultura monumentale in bronzo del primo Rinascimento. Giorgio Vasari nelle Vite, riconobbe la sua importanza con queste parole: “E dimostrossi Donato tanto mirabile nella grandezza del getto in proporzione ed in bontà, che veramente si può eguagliare a ogni antico artefice, in movenza, disegno, arte, proporzione e diligenza. Perché non solo fece stupire allora que’ che lo videro, ma ogni persona che al presente lo vede”. Nel corso del Quattrocento in vari Stati della penisola italiana, si diede il via a commissioni di monumenti equestri. A tal proposito è sufficiente ricordare i progetti di Leonardo per la colossale statua a cavallo di Francesco Sforza, mai andata oltre il modello, o il veneziano monumento a Bartolomeo Colleoni di Andrea del Verrocchio. A realizzarle, vennero quasi sempre chiamati artisti fiorentini, indice dell’alto livello tecnico e artistico raggiunto sulle sponde dell’Arno. Nessuna statua equestre, però, andò ad ornare una piazza fiorentina: bisognerà attendere la fine della stagione repubblicana e l’instaurazione del Granducato per assistere all’evento.

Il monumento a Niccolò da Tolentino di Andrea del Castagno

Nel 1456, a vent’anni di distanza dall’opera compiuta da Paolo Uccello, un nuovo affresco andò ad abbellire la parete sinistra della Cattedrale. La memoria era dedicata al condottiero Niccolò da Tolentino, morto nel 1435 durante la prigionia presso Filippo Maria Visconti. Il Tolentino aveva portato alla vittoria l’armata fiorentina nella Battaglia di San Romano contro un’alleanza tra le truppe senesi e il ducato di Milano. L’opera venne commissionata ad Andrea del Castagno (1421-1457) che scelse, come già aveva fatto Paolo Uccello, di utilizzare una pittura a monocromo, questa volta, però, a simulare il marmo. Nel suo monumento equestre sono riconoscibili non solo gli influssi dell’arte classica ma anche la forte impressione suscitata dal ben più vicino Gattamelata donatelliano.

La fierezza di un cavaliere

Come nell’affresco di Giovanni Acuto, anche il gruppo realizzato dal Castagno poggia su un ampio basamento dal sapore classicheggiante, retto da due mensole laterali e con un’ampia conchiglia al centro. Sul sarcofago, fiancheggiato da due nudi maschili che recano scudi con imprese araldiche, è riportata l’iscrizione in memoria del condottiero. La forza e l’attitudine al comando del Tolentino trovano espressione nella posa salda e sicura, nel busto e nella testa ben eretti e nel braccio disteso che impugna il bastone del comando. Alla solidità e alla fierezza del cavaliere risponde il movimento del cavallo, ritratto non solo nell’ormai consueto incedere all’ambio, ma anche con un deciso scarto della testa verso l’osservatore. Il movimento anima in realtà tutte le figure, grazie agli eleganti svolazzi della coda dell’animale e a quelli del mantello del cavaliere e del nastro che lo ferma al suo collo. La linea di contorno, netta e decisa, nonché il forte chiaroscuro, esaltano invece la statuarietà della composizione. Questa capacità di coniugare monumentalità e movimento è espressione tipica dell’arte del Castagno. Su questa opera è possibile anche raccontare un piccolo aneddoto. Secondo il Vasari, mentre lo “sciacurato Andrea del Castagno” – così definito per il suo presunto carattere rancoroso e invidioso che lo avrebbe addirittura spinto a ferire a morte il collega Domenico Veneziano – era intento a completare la sua opera, un fanciullo urtò la scala sulla quale stava lavorando, facendola traballare. Ad Andrea “gli venne in tanta còlera come bestiale uomo ch’egli era, che sceso gli corse dietro insino al Canto de’ Pazzi.

La fonderia di Giambologna

Ironia della sorte, non fu un fiorentino a concepire la prima statua equestre della città. L’importante commissione venne affidata a Giambologna (1529-1608), artista fiammingo, giunto nella nostra penisola nel 1550 per studiare la grande arte italiana. Da Roma si era trasferito a Firenze dove, aiutato dal suo protettore Bernardo Vecchietti, era entrato nelle grazie di Cosimo I de’ Medici e del figlio Francesco. Era diventato ben presto uno degli artisti più apprezzati del tempo, dimostrandosi capace di eccellere sia nella scultura monumentale – si pensi ad esempio all’Appennino di Pratolino o al Ratto delle Sabine della Loggia dei Lanzi – che nella lavorazione del bronzo. Fu Ferdinando I de’ Medici (1549-1609) ad affidargli la commissione nel 1587, anche se probabilmente già il suo predecessore, il fratello Francesco, aveva avuto l’intenzione di celebrare il genitore con un monumento. Per affrontare l’impresa, lo scultore dovette addirittura creare una nuova fonderia. Per questo trasferì la propria residenza in un palazzo dagli ampi spazi in Borgo Pinti, oggi noto come Palazzo Bellini delle Stelle, dove, accanto alle stanze di residenza, ebbe modo di approntare i suoi laboratori. Così l’erudito Filippo Baldinucci (1625-1696)  ricorderà la straordinaria atmosfera di questo atelier, dove erano “ luoghi atti a contenere agiatamente, e marmi, e statue, e modelli, ed ogni cosa necessaria, ed opportuna alla maestranza del fondere, e condurre di getto ogni gran cosa di metallo, oltre al potere dar luogo alla gran copia di giovani scolari di diverse nazioni, di che abbondava sempre quel gran maestro”. Ancora oggi, passando lungo la via, è facilmente individuabile l’ampio portone attraverso il quale potevano passare le colossali opere concepite all’interno della bottega.

La celebrazione del potere: Cosimo I

Rifacendosi ai modelli che lo avevano preceduto, sia della classicità che del primo Rinascimento, Giambologna rappresentò il primo granduca di Toscana mentre, vestito con un’armatura moderna, procede con lo sguardo fiero e imperioso in sella al suo cavallo. Notevole è la resa anatomica dell’animale, caratteristica dell’artista fiammingo e testimonianza del suo studio dal vero. L’animale pare quasi vivo, grazie alla tensione evidente dei poderosi muscoli e all’elegante movimento che corre lungo la criniera leggermente mossa dall’aria. Completa la composizione il ricco basamento in marmo, sul quale sono collocati tre bassorilievi, terminati successivamente all’inaugurazione della statua nel 1594. Essi rappresentano i momenti chiave dell’affermazione del potere mediceo: il Senato fiorentino che rende omaggio al giovane duca Cosimo (1537), l’Entrata trionfale di Cosimo a Siena (1555) e l’Incoronazione a Granduca (1569). Ciascun rilievo è sormontato da un cartiglio che, in latino, permette di identificare la scena rappresentata. Sul quarto lato del piedistallo è presente l’iscrizione dedicatoria di Ferdinando I al padre. Sul basamento sono anche visibili le teste di capricorno, impresa personale di Cosimo I. Il capricorno, segno zodiacale ascendente del Medici, spesso accompagnato dal motto “Fidem fati virtute sequemur (con coraggio conseguirò quello che mi promette il destino)” era stato scelto anche perché alludeva all’ascendente di due altri grandi uomini di potere: l’imperatore romano Augusto e l’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V, sotto la cui protezione era fiorito il principato mediceo.

La fedeltà al vero

Una leggenda racconta che un contadino, osservando attentamente il cavallo, notò che lo scultore si era dimenticato di fare la “castagna”, quella callosità che si trova nella parte interna della zampa. Desideroso di rendere l’animale in tutta la sua verità e naturalezza, lo scultore provvide immediatamente a correggere l’errore e aggiunse le castagne alle zampe anteriori. La qualità del monumento, realizzato con un unico getto di fusione, contribuì immediatamente ad accrescere la fama dell’artista e a procacciargli nuove commissioni, alcune delle quali sempre di casa Medici: quella per il monumento in memoria di Enrico IV di Francia (andato distrutto durante la rivoluzione francese), da collocarsi a Parigi per volontà della vedova Maria e quella per il monumento a Ferdinando I, ultima opera dell’artista.

La statua equestre di Ferdinando I

Fu lo stesso Ferdinando I a commissionare nel 1601 all’artista, ormai anziano, una statua celebrativa della sua figura, concepita per uno spazi urbani più importanti della città, piazza Santissima Annunziata, sulla quale si affacciavano – e si affacciano –  il brunelleschiano Ospedale degli Innocenti e l’antica basilica mariana. La statua, alla morte del maestro fiammingo (1608), venne portata a compimento dal suo allievo Pietro Tacca. Venne collocata sulla piazza, in perfetto asse con via dei Servi e dunque in collegamento con la cattedrale fiorentina, in occasione delle nozze del principe Cosimo con Maria Maddalena d’Austria. Come ricorda l’iscrizione che corre lungo la fibbia del sottopancia del cavallo (“De’ metalli rapiti al fero Trace”), il metallo per realizzare la statua venne ricavato dalla fusione dei cannoni delle galee nemiche conquistate. La statua equestre celebra, dunque, anche la vittoriosa impresa contro i Turchi, sconfitti dai Cavalieri di Santo Stefano, segnata dalla conquista della roccaforte algerina di Bona.

Un monumento a raccontare l’indole del nuovo granduca

L’impostazione generale del monumento appare più elegante e controllata rispetto a quella di Cosimo I, forse per meglio corrispondere all’indole del nuovo granduca. Ferdinando indossa una corazza, al centro della quale spicca la croce dei Cavalieri di Santo Stefano, ordine istituito già da Cosimo I nel 1562. Il bastone del comando che regge con la mano destra, e poggia sulla gamba, accentua la verticalità e la solidità della sua figura. Il cavallo procede docilmente al passo, con le briglie lasciate morbide. Il basamento rettangolare in marmo bianco è rivestito, sui lati lunghi da semplici specchiature in granito rosso, mentre su quelli corti si trova un cartiglio in bronzo. Quello prospiciente la Basilica della Santissima Annunziata riporta l’impresa personale di Ferdinando I: un’ape regina, circondata dalle operaie, disposte lungo cerchi concentrici. L’impresa, accompagnata dal motto “Maiestate tantum (soltanto per la sua maestà)”. è allusione al governo pacifico di Ferdinando, fulcro e centro di riferimento del principato mediceo, attorno al quale si muove e lavora il popolo fiorentino.  La gran quantità di api presenti sul rilievo bronzeo ha fatto nascere la leggenda che sia impossibile contarne con esattezza il numero senza confondersi. Sul lato opposto, il cartiglio bronzeo riporta l’iscrizione dedicatoria a Ferdinando.

Una statua per Vittorio Emanuele

L’ultima statua equestre che andò ad ornare una pubblica piazza fiorentina, vide la luce in piena età risorgimentale, in un momento storico in cui si tornò a voler celebrare i propri signori e condottieri. Nel 1859 il Governo provvisorio della Toscana aveva bandito un concorso per la realizzazione di due monumenti equestri per celebrare l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna e due figure chiave nel processo di unificazione italiana: Napoleone III (1808-1873), valido alleato dei Piemontesi contro la casa d’Asburgo, e Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878). Le due statue avrebbero dovuto trovare collocazione in piazza Maria Antonia, l’attuale piazza Indipendenza, luogo in cui era avvenuta la pacifica insurrezione che aveva portato alla definitiva cacciata dei Lorena dalla Toscana. Fu lo scultore livornese Salvino Salvini a vincere il bando per la realizzazione della statua del Re, che però non andò mai oltre al colossale modello in gesso, terminato nel 1864. I dubbi sulla qualità dell’opera di Salvini, uniti alla preoccupazione per la spesa troppo ingente e agli importanti cambiamenti urbanistici avvenuti negli anni di Firenze capitale (1865-1871), indussero a mettere da parte l’ambizioso progetto. Alla morte del re, ritornò l’idea di realizzare un monumento celebrativo in sua memoria.

Un nuovo concorso

Nel 1881 venne pertanto organizzato un nuovo concorso per una statua equestre da collocarsi, questa volta, nella piazza creata dagli interventi di riordino e riqualificazione del centro storico. dove un tempo si trovava il Mercato Vecchio (attuale piazza della Repubblica). Vinse il concorso il modello presentato da Emilio Zocchi, scultore e professore dell’Accademia di Belle Arti. La statua equestre in bronzo venne inaugurata con una solenne cerimonia il 20 settembre 1890, in una piazza non ancora completata e ormai intitolata al defunto re. Nonostante il risalto che venne dato sulle pagine dei giornali, l’opera venne accolta freddamente e non fu esente da aspre critiche, soprattutto da rilevarsi in una certa qual goffezza dell’animale e in una impettita rigidità del sovrano. Nel 1932 si decise di cambiare collocazione e andò ad ornare piazza Vittorio Veneto, all’ingresso del Parco delle Cascine. Sul basamento che sorregge la statua, oltre al cartiglio con la dedica al re, sono presenti due bassorilievi, sempre in bronzo, che raccontano i due momenti chiave che legano la figura di Vittorio Emanuele II alla storia fiorentina: la Presentazione dei risultati del plebiscito da parte della Deputazione Toscana e il Saluto della folla al sovrano che lascia la città per trasferirsi nella nuova capitale, Roma.