Nel cuore della città, all’ombra della basilica di Santa Maria Novella, sorge un piccolo gioiello, l’Oratorio dei Vanchetoni, fondato agli inizi del XVII secolo dal tessitore Ippolito Galantini. Perfettamente rispondente, nella sua spiritualità, ai nuovi dettami della Controriforma, esso divenne ben presto luogo di rivelazione della pittura seicentesca fiorentina.
Sommario
Ippolito Galantini: una vocazione innata
Ippolito Galantini nasce a Firenze nell’ottobre del 1565 da Filippo, tessitore di seta e Maria Ginevra Zufoli. Dal quartiere d’Oltrarno, dove era nato, si trasferì ben presto insieme ai genitori e ai cinque fratelli nella parrocchia di Santa Lucia sul Prato, luogo di culto a mezza strada tra due delle chiese più importanti della zona, Ognissanti e Santa Maria Novella. Fin da fanciullo dimostrò grande vocazione spirituale, tale da portarla a riflettere, ancora giovanissimo, sul tema dell’educazione cristiana.
Il suo primo biografo, Dioniso Baldocci Nigetti, racconta che Ippolito era dotato di grande intraprendenza e straordinaria memoria al punto che spesso, mentre si divertiva con gli amici a costruire piccoli altari, era in grado di istruire i coetanei con le parole ascoltate durante le celebrazioni liturgiche. Va sottolineato che il tema della precoce devozione manifestata dal Galantini persino nel gioco, costituiva, ormai da tempo, un topos della letteratura tridentina e, forse non a caso, sembrava trarre lo spunto da un esempio vicino e significativo rappresentato dall’esperienza giovanile dell’arcivescovo di Firenze, Alessandro de’ Medici, ricordato da un anonimo mentre fabbricava altarini.
Maestro delle scuole di dottrina
Sebbene il padre di Ippolito, sempre a detta del Baldocci Nigetti, ostacolasse, in un primo momento, la vocazione religiosa del figlio, all’età di circa sei anni fu permesso al Galantini di frequentare la scuola della dottrina, tenuta dalla Compagnia di Gesù nel collegio di San Giovannino di Firenze. Tentò anche, il Galantini, di farsi accettare in un ordine religioso, ma, a causa della salute precaria, gli venne sempre negato. Ma poteva avvicinarsi da laico alle congregazioni e compagnie. Al laico Jacopo Ansaldi, del resto, il neo arcivescovo di Firenze Alessandro de’ Medici aveva dato l’incarico di introdurre l’insegnamento della dottrina nelle compagnie di Firenze. Fu così che nel 1584 lo stesso Ansaldi propose Ippolito come “maestro generale” delle scuole di dottrina nella chiesa di Santa Lucia sul Prato, finché nel gennaio del 1599 fu chiamato a succedere all’Ansaldi stesso, come capo e governatore di tutte le compagnie della dottrina cristiana esistenti a Firenze.
Il “sermoneggiare” del Galantini suscita invidie
Il successo fu immediato e il concorso di pubblico così numeroso che il Galantini fu spesso costretto a cambiare sede perseguitato da invidie e malcontenti suscitati dalla sua capacità di “sermoneggiare” e dalla sua schiettezza nel riprendere pubblicamente peccati e vizi di chiunque, senza aver riguardo per alcuni dei personaggi più in vista della città. Dalle deposizioni rilasciate da alcuni testimoni, durante il processo di beatificazione, istruito subito dopo la sua morte, si viene a conoscenza che il modo di predicare di Ippolito aveva suscitato sospetti di poca ortodossia, tanto da essere denunciato all’inquisitore.
Se da una parte occorre sottolineare come a Firenze, a differenza di altri luoghi, le scuole della dottrina cristiana fossero affidate non al clero, bensì a laici, secondo la tradizione iniziata da Sant’Antonino Pierozzi nel XV secolo, dall’altro è doveroso porre l’accento sulla volontà innovativa dello stesso Galantini che, fondendo vari esempi educativi, introdusse, nell’insegnamento della dottrina ai fanciulli, il canto, la recita a memoria delle lezioni e il gioco.
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La nuova Congregazione di San Francesco della Dottrina cristiana detta dei “Vanchetoni”
A soli 17 anni, dunque, il nostro Galantini era diventato il responsabile della Congregazione di Santa Lucia e poi di quella del Santissimo Salvatore. Conduceva una vita di grandi sacrifici: digiunava tre volte alla settimana, mangiava solo cose povere e di notte dormiva pochissimo per poter pregare: Divenne, così, amatissimo dal popolo. Era però in attesa di una collocazione stabile per la sua Congregazione. Non dovette attendere a lungo. Nei primi anni del XVII secolo, gli Osservanti Francescani di Ognissanti, infatti, gli donarono un terreno a orto del loro convento e, grazie alle cospicue donazioni da parte della famiglia granducale e dell’arcivescovo Alessandro de’ Medici, Ippolito poté far costruire un grande oratorio, dove potersi occupare della catechesi in maniera autonoma.
La posa della prima pietra avvenne il 14 ottobre 1602 e solo due anni più tardi, nel 1604, il nuovo oratorio venne completato. Da quel momento avrebbe ospitato la neonata Congregazione di San Francesco della Dottrina cristiana.
L’organizzazione dell’insegnamento e le sei “scuole di noviziato”
Nella domenica di Pentecoste del 1604 veniva dunque inaugurata la nuova sede della Congregazione di San Francesco della Dottrina cristiana, posta in via Palazzuolo, dove tuttora si trova, non essendo tra quelle confraternite e compagnie laicali soppresse nel Settecento dal granduca Pietro Leopoldo di Lorena prima e dal governo napoleonico dopo.
Conosciuta anche come Congregazione dei “vanchetoni”, dal procedere in silenzio dei confratelli, essa venne riconosciuta ufficialmente nell’aprile del 1607. La carica principale di guardiano fu ricoperta dal Galantini stesso. Per l’insegnamento della dottrina rivolto a bambini, ragazzi e adulti maschi erano previsti ventitré maestri e sedici classi, tra le quali era compresa addirittura una classe di “venturieri” per i ragazzi venuti “di fuora”. Un’organizzazione capillare, dunque, che prevedeva anche sei “scuole di noviziato”, l’iniziativa forse più originale voluta da Ippolito per la formazione dei membri della Congregazione, in particolare dei maestri della dottrina. Le sei scuole erano strutturate in modo graduale per condurre il buon cristiano a un cammino di perfezione secondo uno schema ormai collaudato e in molti punti ispirato agli Esercizi di Sant. Ignazio di Loyola, così come base per l’insegnamento della dottrina fu adottato il catechismo di Roberto Bellarmino.
La morte del Galantini e il processo di beatificazione
Ippolito Galantini passò il resto della sua vita dedicandosi all’insegnamento e all’apostolato, pur sempre da laico. Ancora vivente, era circondato da fama di santità, legata soprattutto alle sue capacità taumaturgiche sviluppate dalla profonda propensione per le opere di misericordia volte all’assistenza dei malati. Le numerose conversioni e guarigioni operate furono, tuttavia, offuscate, anche dopo la morte, da accuse e persecuzioni da parte di laici e religiosi che tentarono, pur non riuscendoci, di screditarlo tanto agli occhi della corte granducale fiorentina, quanto a quella papale. Nel novembre 1619, quattro mesi prima di morire, il Galantini, preoccupato per il futuro della sua Congregazione, volle aggiungere alle prime costituzioni della compagnia, alcune regole per l’elezione del guardiano, figura chiave di tutta l’organizzazione. Ippolito passò a miglior vita il 20 marzo 1620 e quasi subito, a richiesta dei confratelli e della famiglia Medici, fu aperto il processo per la sua canonizzazione. L’iter fu lunghissimo e si chiuse con la beatificazione solo nel 1825.
L’Oratorio dei Vanchetoni, la sua storia e i suoi architetti
Quando il Galantini scomparve, nel 1620, l’Oratorio, con la sua grande sala, era già stato costruito e inaugurato, su finanziamento di Cristina di Lorena. Tuttavia, pochi mesi dopo la scomparsa del fondatore, grazie agli aiuti munifici di Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II e dell’arcivescovo Alessandro de’ Medici, futuro papa Leone XI, si aggiunsero il vestibolo e la facciata su via Palazzuolo.
Ad occuparsi del progetto, fin dall’inizio, erano stati i fratelli Nigetti: il ben noto Matteo, autore della facciata della vicina chiesa di Ognissanti e della famosa Cappella dei Principi in San Lorenzo, e Giovanni, architetto meno conosciuto ma altrettanto talentuoso. Entrato all’Accademia del Disegno con qualifica di pittore nel 1596, pur esercitando anche la professione di architetto e orefice, Giovanni era vicinissimo al beato Ippolito, per conto del quale presenziò anche alla stesura di alcuni atti notarili importanti. Tra l’altro era presente quando Cristina di Lorena, nel 1616, regalò al Galantini un “grano di corona di rosario” appartenuto a una santa spagnola, la beata Giovanna dalla Croce. Con quel grano Ippolito usava fare segni di croce sulla parte malata di coloro che si rivolgevano a lui fiduciosi nella sua fama di taumaturgo. Fu proprio dal momento del dono che Ippolito si dedicò alle guarigioni, tanto che si diffuse, ancora in vita, la fama della sua santità.
Le donne Medici, protettrici di confraternite
Sono ormai noti i rapporti che legarono le donne di casa Medici con diverse confraternite fiorentine. Anche se rimasero sempre rapporti “esterni”: difatti quel mondo era essenzialmente maschile e, laddove vi erano donne, erano madri o mogli di iscritti. Dietro pagamento di una tassa annuale, esse potevano beneficiare di alcuni privilegi, come essere inumate nella sepoltura della compagnia, ma non potevano partecipare alla vita spirituale, tanto che spesso non potevano partecipare nemmeno ai riti funebri. Alcune confraternite si erano rivolte spesso alle donne di Casa Medici per gratitudine o per aiuto. E’ il caso, ad esempio, della Buca di San Gerolamo che, nel 1543, si era rivolta a Maria Salviati per riottenere la loro sede, all’epoca all’interno dell’Ospedale di San Matteo, dopo che il sodalizio era stato chiuso in vista dell’assedio del 1529. Il legame tra i due non fu però solo per tali motivi. Lo dimostra la morte di Giovanna d’Austria avvenuta nell’aprile del 1578: in questa circostanza, dopo il solenne funerale di corte, si tennero orazioni funebri in molte confraternite. Tra queste, si segnalarono le due Compagnie dell’Arcangelo Raffaele, l’una detta “del Nicchio” in via Maffia, destinata agli uomini, l’altra detta “della Scala” in Santa Maria Novella e destinata ai fanciulli,
Con Cristina di Lorena si assiste a un caso singolare: l’entusiasmo per una confraternita infatti spinse la granduchessa a iscrivere il figlio, futuro Cosimo II, alla compagnia “della Scala”, dove lei stessa appena giunta a Firenze era intervenuta ai Vespri. Da quel momento tutti gli uomini della famiglia furono ascritti al sodalizio, fino all’estinzione della casata. Nessuno dei Medici, tuttavia, anche se iscritto, prese mai parte alle devozioni o attività delle confraternite, anche se la loro presenza in occasione delle festività e delle rappresentazioni era motivo di prestigio per il gruppo laicale.
Il primo ciclo decorativo
Si è detto che la prima pietra del vestibolo, benedetta dall’arcivescovo Alessandro Marzi Medici, fu posata nel novembre del 1620 e nelle fondamenta venne inserita una medaglia d’oro con l’effigie della granduchessa Maria Maddalena sul dritto e, sul rovescio, il suo nome che ricorreva anche in una lastra di marmo posta sempre nelle fondamenta. Proprio nel vestibolo è conservato un ciclo di dipinti a monocromo bruno, attribuiti a Giovanni Nigetti, che ripercorre le vicende biografiche del Galantini, secondo la Vita scritta dal nipote Dionisio Baldocci Nigetti e pubblicata prima a Roma nel 1623 e poi a Firenze nel 1625.
Di particolare interesse il dipinto raffigurante le Esequie del Galantini che restituiscono visivamente i racconti di cronaca dell’epoca: si dice infatti che la folla si fosse accalcata nella chiesa per le celebrazioni, dirette dall’arcivescovo stesso, nel tentativo di ottenere una reliquia del futuro beato; si dice anche che Maria Maddalena avesse ordinato a Matteo Nigetti di creare un riparo per il catafalco. Il dipinto mostra infatti come si fosse realizzata un’alta impalcatura, circondata da candelabri, e come fosse stato adagiato obliquamente la salma perchè potesse comunque essere vista.
Gli anni Quaranta del Seicento
Nel 1639 si decise di affrescare anche la volta dell’Oratorio vero e proprio, che divenne, fin da subito, specchio fedele delle varie tendenze artistiche presenti allora a Firenze. Il soffitto è diviso in tredici scomparti di varie forme e grandezza; le immagini sono intervallate da cartigli con iscrizioni esplicative collegate alla raffigurazione più vicina, secondo quella tipologia affermatasi già nel Cinquecento con Ferdinando I dei Medici. Sebbene sembrino quadri riportati, le scene sono separate da parti divisorie dipinte e non realizzate in legno o stucco. Questo probabilmente per problemi di costi.
Il 1639 è anche l’anno in cui sempre più si assiste all’affermarsi, a Firenze, del gusto barocco di importazione romana: si ricorda infatti che, già da un paio di anni, è presente in città Pietro da Cortona, attivo nella residenza dei Medici. A questi e in particolare a Ferdinando II si deve l’ovale centrale dell’Oratorio, dipinto dal veronese Pietro Liberi e raffigurante la Gloria medicea, un grande stemma granducale accompagnato dalle figure allegoriche della Pace, della Giustizia e della Fama. Il granduca aveva concesso alla compagnia dei Vanchetoni 150 scudi per decorare il soffitto. La somma era troppo esigua per l’intera impresa e difatti servì soltanto al pagamento di quell’ovato. Mentre per il resto della decorazione del soffitto, furono i confratelli a doversi tassare per sostenere le spese.
Tre furono le figure chiamate a supervisionare i lavori: Giovanni Nigetti e Giovanni Nardi, celebre medico e letterato toscano legatissimo alla casa regnante, avrebbero esaminato i disegni e approvato i lavori; il carmelitano Alberto Leoni, confessore di Cristina di Lorena, nonchè del Galantini stesso.
Una squadra di artisti
Se l’ovato centrale fu dipinto dal Liberi, Domenico Pugliani, allievo di Matteo Rosselli, fu chiamato a realizzare le Esequie del Galantini e San Francesco in Gloria, nonchè Santa Lucia, Santa Caterina e la Maddalena. A Giovanni Martinelli, invece, l’artista di Montevarchi formatosi con Ligozzi ma legato anche al caravaggismo di Cigoli, vengono attribuite le scene raffiguranti La predica del Beato Ippolito Galantini – con veduta di Porta al Prato e del luogo dove poi sorse l’oratorio – i Santi Ignazio, Domenico, Giuseppe e Bernardino da Siena e l’Assunzione e Incoronazione della Vergine. Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, Cecco Bravo e Lorenzo Lippi si occuparono di scene di santi: il primo dipinse Giovanni Evangelista, Giovanni Battista, Filippo Neri, il secondo Zanobi, Antonino e Carlo Borromeo; il terzo Caterina, Agata e Cecilia.
Era stato anche stabilito di non decorare il fregio se non con alcuni scudi tra le finestre che dovevamo mostrare, all’interno, l’impresa della Congregazione. Non sappiamo come venne eseguito, perchè quello attuale, risalente al 1734 e realizzato da Niccolò Nannetti e Rinaldo Botti, andò completamente a rivestire il precedente. Dati i lavori in quell’anno, si pensò di non organizzare la consueta “cena dei cento poveri” che, ogni anno, veniva allestita l’ultima domenica di carnevale, prima ovvero di entrare in Quaresima. Nonostante le difficoltà, padre Leoni volle comunque farla organizzare.