Il 18 febbraio 1564 Michelangelo moriva nella sua casa romana in Macel de’ Corvi. La scomparsa del “lume” dell’arte, “cosa celeste e divina più che mortale” – per usare le parole di Vasari – non poteva essere solo un dolore privato o individuale dei familiari e degli amici. La sua esistenza, ormai da decenni, era sfuggita alle natura umana per assurgere ad astro imperituro. La notizia della sua morte fu perciò un avvenimento che lasciò profondamente sgomento l’ambiente artistico. Ed è così che, a Firenze, si decise di celebrare il Maestro con una superba cerimonia funebre da tenersi nella chiesa medicea per eccellenza, San Lorenzo. Ad occuparsi degli allestimenti per le esequie fu l’Accademia del Disegno, istituzione che era nata solo da pochissimi mesi.

1564: prima riunione dell’Accademia delle Arti del Disegno

Nel gennaio del 1564, poco più di un mese prima della morte del Divino Maestro, si era infatti tenuta la prima riunione dell’Accademia delle Arti del Disegno: era l’inizio di una nuova epoca, l’epoca dell’emancipazione degli artisti dallo spirito artigianale e della piena affermazione del valore intellettuale dell’attività artistica. Era l’occasione per sottolineare la nobiltà dell’impegno dell’artista e dunque l’elevazione del suo ruolo sociale.

Il 12 gennaio di 1564 (stile comune) venne presentato a Cosimo I dei Medici l’atto costitutivo della nuova Accademia e, avuta l’approvazione e la ratifica, l’appena designato suo luogotenente Vincenzo Borghini tenne, alla fine del mese, la seduta inaugurale nel capitolo del monastero degli Angeli: vi presenziarono circa 70 persone tra artisti e artigiani, vennero eletti i primi 37 accademici e lo stesso duca di Firenze, nonché Michelangelo, vennero riconosciuti capi della nuova Istituzione. Nell’occasione venne stabilito anche che, da quel momento in avanti, la direzione dell’Accademia sarebbe stata affidata a un luogotenente, proposto dagli accademici e approvato dal principe; che il luogotenente sarebbe stato affiancato da tre consoli e tre consiglieri, a loro volta assistiti da un provveditore, un camerlengo, un sindaco, uno scrivano, un cancelliere e due paciali. Si decise, infine, che due dei consoli dovevano appartenere all’Accademia, mentre il terzo si sarebbe dovuto eleggere tra gli iscritti a quella antica Compagnia di San Luca che era stata modello per la stessa Accademia e che era appena stata assorbita al suo interno. Un’organizzazione, insomma, degna del governo di uno Stato!

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Le origini della compagnia di San Luca

Si è detto che la neonata Accademia prese a modello l’antica Compagnia di San Luca. Essa, stando ai più accreditati studi, era nata nel 1339 con lo scopo di riunire in un’unica “categoria” gli artisti presenti nella città di Firenze. La scelta del nome fu, in un certo senso, “obbligata”: quale titolazione migliore infatti se non quella dedicata al santo che, secondo la tradizione ecclesiastica, aveva dipinto un miracoloso ritratto della Vergine?

La Compagnia, una sorta di vera e propria corporazione artistica, protetta dalla Parte Guelfa, non aveva fissa dimora, ma sappiamo per certo che, nel XV secolo, le venne concesso l’uso di una stanza nei locali attigui all’Ospedale di Santa Maria Nuova.

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Benché detta “dei pittori”, in realtà essa accolse, nel corso del tempo, anche scultori, battilori, orefici, miniatori, intagliatori, correggiai e tanti altri artigiani appartenenti alle corporazioni più diverse. Tra i tanti iscritti si ricordano Benozzo Gozzoli, Donatello, Lorenzo Ghiberti, Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti.

“Cascata (…) del tutto et quasi finita” allo scadere del Quattrocento, essa tornò a nuova vita grazie all’interessamento del frate servita Giovan Angelo Montorsoli.

La Cappella dei Pittori alla SS. Annunziata e la nuova Accademia

Intorno alla metà del Cinquecento, infatti, Giovan Angelo Montorsoli ebbe l’idea di riportare in auge la Compagnia di San Luca, destinandole come sede una cappella della Basilica della SS. Annunziata che era stata, in antico, sala Capitolare dei frati. Proposito del frate era quello di sistemare, in quel luogo, la propria tomba e quelle di tutti gli artisti che non avessero ricevuto degna sepoltura da parte dei familiari.

La proposta piacque e si diede così inizio ai lavori che vennero sostenuti dal servita. Si decise che la decorazione avrebbe dovuto raccontare l’unione delle tre arti: la pittura sarebbe stata omaggiata con affreschi e grottesche; la scultura con 12 statue, sei per parte, da collocarsi in rispettive nicchie; l’architettura attraverso l’assetto generale della Cappella. Nel frattempo Giorgio Vasari, amico del Montorsoli e coinvolto nel progetto, ebbe l’idea di trasformare quella Compagnia in una vera e propria Accademia che fosse finalmente emancipata dallo spirito artigianale e garante del valore intellettuale dell’attività artistica.

Per realizzare il suo progetto, nel maggio 1562, l’aretino coinvolse alcuni tra i più noti artisti del tempo, tra cui Agnolo Bronzino e Bartolomeo Ammannati e presentò una supplica al duca Cosimo I perchè volesse “favorire lo studio di queste nobili arti”.

E così mentre si procedeva con l’inaugurazione della Cappella di San Luca e con la prima inumazione dei resti del Pontormo, contemporaneamente si provvedeva alla stesura dei Capitoli che vennero approvati dalla corte medicea il 13 gennaio 1563. Era così nata l’Accademia delle Arti del Disegno.

La morte di Michelangelo e l’arrivo delle sue spoglie a Firenze

L’occasione per la nuova Accademia di presentarsi pubblicamente si presentò pochi mesi dopo la sua fondazione. Il 18 febbraio del 1564, alla veneranda età di ottantanove anni, moriva nella sua casa romana il Buonarroti e le sue spoglie sarebbero arrivate a Firenze nel marzo di quello stesso anno. Vi era dunque da decidere in merito alle esequie del “divino maestro” e alla sua sepoltura. Formalmente però. Perchè in realtà il Medici aveva già scelto, sotto l’insistenza del suo architetto di fiducia “Giorgino”, di affidare alla neonata Accademia la preparazione dei funerali dell’artista, la cui buona riuscita avrebbe poi decretato la commissione per la sepoltura nella basilica di Santa Croce.

Nei primi giorni di marzo fu eletto un comitato esecutivo delle esequie che riuscì composto da due pittori (Giorgio Vasari e Agnolo Bronzino) e da due scultori (Benvenuto Cellini e Bartolomeo Ammannati). L’artista Zanobi Lastricati venne nominato provveditore per i materiali e per le questioni finanziarie, mentre Don Vincenzo Borghini, Luogotenente dell’Accademia e Priore dello Spedale degli Innocenti, venne chiamato ad occuparsi del progetto iconografico del complesso apparato.

Pur avendo stabilito la data del funerale per l’aprile di quel 1564, esso venne celebrato soltanto il 14 luglio, causa le innumerevoli discussioni nate intorno al programma decorativo e i pressanti problemi di ordine economico.

Dove tenere le esequie del divino “maestro”?

Una prima controversia nacque in merito al luogo dove si sarebbe celebrato l’evento e, di conseguenza, sulle dimensioni che avrebbe dovuto assumere il prestigioso apparato. Il Vasari, infatti, aveva suggerito la Sagrestia Nuova o la basilica di San Lorenzo, mentre il Cellini, come soluzione di compromesso fra uno spazio troppo angusto (la Sagrestia) e uno troppo ampio (la navata della chiesa), proponeva la Biblioteca Laurenziana o il Capitolo di San Lorenzo. La faccenda si risolse presto, optando, grazie a una speciale autorizzazione granducale, per la sistemazione del feretro nella navata centrale della basilica di San Lorenzo, luogo generalmente riservato ai membri di casa Medici, ai principi stranieri o ad alti prelati. Una scelta, quella della chiesa, tutta politica: le esequie di Michelangelo dovevano sì omaggiare l’artista geniale, cui veniva concesso stesso onore dei sovrani e delle più alte autorità, ma dovevano soprattutto evidenziare la benemerenza, la magnanimità e la nobiltà d’animo del granduca di Firenze.

Problemi di finanziamento

Nacquero anche subito problemi di finanziamento. L’Accademia, con la somma ottenuta dalle offerte, non poteva pagare che una parte dei materiali necessari all’impresae le sovvenzioni granducali promesse tardavano ad arrivare.

Fu solo grazie a un prestito dell’Ammannati che, dopo quasi due mesi, si potè dare inizio alle decorazioni, per la cui esecuzione erano stati selezionati dal Borghini, forse – se non soprattutto – per la gratuità della loro manodopera, giovani artisti fiorentini il cui unico compenso sarebbe stata l’ammissione all’Accademia, nonché il vanto di aver partecipato a un evento così prestigioso. In effetti già si sapeva che quelle esequie sarebbero passate alla storia; e lo si supponeva dalla ricchezza e dallo sfarzo profusi nell’allestimento dell’impresa che assunse dimensioni davvero titaniche.

Un grandioso catafalco a gradoni in San Lorenzo

L’apparato consisteva infatti in alto catafalco a gradoni, costituito da tre zoccoli degradanti verso l’alto e culminanti in una svelta piramide sulla quale era innalzata la statua della Fama a reggere tre trombe con una mano e tre ghirlande con l’altra.

Su questa struttura di base erano poste pitture a chiaroscuro con rappresentazioni storiche e allegoriche, una moltitudine di figure simboliche, tutte inneggianti la figura di Michelangelo e un epitaffio scritto da Pier Vettori dedicato “all’eccellenza e virtù del maggior Pittore, Scultore e Architettore, che sia mai stato”.

Intorno al secondo basamento, assise ai piedi della piramide, vennero collocate le arti in cui il Buonarroti si era distinto, come ancor oggi si vede in un dipinto di Casa Buonarroti.

E fu proprio la sistemazione di queste statue che riaccese la polemica sulla preminenza delle arti apertasi a Firenze allo scadere degli anni Quaranta con Benedetto Varchi e risoltasi con l’ammonimento di Michelangelo stesso a “far fare loro una buona pace insieme, e lasciare tante dispute, dove va più tempo che a far figure”.

Fu l’orientamento della statua della Scultura sul catafalco, decisa dal Borghini, la causa dell’abbandono del comitato esecutivo da parte del Cellini che, per protesta, decise di non presenziare nemmeno alle onoranze funebri, adducendo come scusa un’indisposizione di cui sarebbe stato afflitto in quel tempo!

Il trionfo delle Esequie tra polemiche e difficoltà

L’apparato decorativo delle esequie non si fermava al catafalco, ma coinvolgeva tutta quanta la Chiesa, le cui pareti erano interamente rivestite di “rovesce e di rasce nere appiccate, non come si suole alle colonne del mezzo, ma alle cappelle, che sono intorno intorno, il che faceva la veduta più magnifica, ribattendo in quel nero il sereno delle colonne“.

Del diciotto dipinti appesi davanti alle cappelle laterali, dieci raffiguravano alternativamente simboli della morte e l’impresa dell’artista, cinque gli episodi salienti della sua vita e tre presentavano allegorie della vita e della morte del maestro. Infine sul luogo che qualche anno più tardi avrebbe ospitato il Pulpito destro di Donatello venne appeso il dipinto con il Trionfo della Fama sul Tempo e sulla Morte di Vincenzo Danti, mentre dall’altro pulpito donatelliano il Varchi pronunciò la sua nota orazione funebre, rendendo omaggio tanto a Michelangelo quanto all’Accademia.

Tra difficoltà e polemiche, le esequie di Michelangelo furono uno degli eventi più spettacolari della Firenze granducale: la gente era accorsa in gran numero a onorare il divino maestro e giacché non era possibile che tutta la città vedesse in un sol giorno il catafalco, fu data disposizione da Cosimo I che quello fosse lasciato in piedi per qualche settimana “a soddisfazione de’ suoi popoli e de’ forestieri, che da’ luoghi convicini lo vennero a vedere”.

Dalle “Esequie” al “Monumento sepolcrale” in Santa Croce

Mentre il corpo di Michelangelo giaceva in un deposito provvisorio in Santa Croce e si procedeva alla realizzazione degli apparati funebri in San Lorenzo, l’Accademia riuscì ad ottenere la sovrintendenza dei lavori per la sepoltura del Maestro nella basilica francescana. Convinto Lionardo Buonarroti e ottenuto l’avallo della corte granducale, il Borghini passò alla scelta degli artisti che, distintisi nelle Esequie, avrebbero dovuto eseguire il disegno vasariano della Tomba. Nel novembre del 1564 furono affidati gli incarichi: Giovanni Bandini e Battista Lorenzi, entrambi allievi di Baccio Bandinelli, vennero chiamati a realizzare la statua dell’Architettura il primo, la statua della Scultura (trasformata in corso d’opera in Pittura), il Busto di Michelangelo e le opere di quadro e di intaglio il secondo. A Battista di Benedetto Fiammeri, allievo dell’Ammannati, sostituito, dopo pochi mesi, da Valerio Cioli, venne richiesta l’allegoria della Pittura (trasformata in corso d’opera in Scultura).

I lavori ebbero inizio nel dicembre 1564 e, nonostante la “prestezza” raccomandata da Cosimo I, si protrassero fino al 1578. Le ragioni di tempi così lunghi si spiegano con vari e molteplici impedimenti che si verificarono nel corso di quel decennio, dal ritardo nella consegna dei marmi alle mancate sovvenzioni economiche, dalle liti tra committente e artisti alla controversia che, nuovamente, riguardò la posizione delle Arti sul Monumento.

Ma, a dispetto di questo, la magnificenza della sepoltura fece nascere da subito l’opinione che “tutto quello che di presente in questo sepolcro si vede sia di mano di Michelangelo” (F. Bocchi, G. Cinelli, 1677).

Pittura o Scultura?

Nell’assegnazione dei lavori, si era previsto inizialmente che Battista Lorenzi realizzasse l’allegoria della Scultura da sistemarsi sul lato sinistro del sepolcro, mentre al centro doveva sedere la Pittura. Quando l’opera era già in una fase avanzata di lavorazione, insorsero difficoltà di ordine, potremmo dire, “concettuale”: quale fra le Arti in cui era eccelso Michelangelo, ci si chiese, doveva avere la posizione preminente? Era giusto insomma che la Scultura sedesse di lato e la Pittura al centro? La risposta possiamo immaginarla. Di fatto il povero Lorenzi dovette piegarsi alle nuove disposizioni del committente, accettando, pur essendo molto avanti nei lavori, di tramutare la statua in Pittura, ma rifiutandosi tuttavia di togliere quel piccolo bozzetto tra le mani delle figura che, per secoli, ha generato confusione nella sua lettura.

Le tre ghirlande intrecciate: da “segno” di Michelangelo a simbolo dell’Accademia

Nella fascia superiore del monumento sono scolpiti, entro riquadri simmetrici, gli stemmi della famiglia Buonarroti e tre ghirlande intrecciate, considerate comunemente il “segno” di Michelangelo. Benchè il suo impiego sia piuttosto discusso, è opinione popolare che il Maestro amasse siglare con tre cerchi intrecciati i marmi da lui personalmente scelti nelle Cave di Carrara e destinati alla fabbrica della Sagrestia Nuova. Se oggi questa usanza del Maestro sia considerata attendibile, poco interessa. Interessa invece che venne considerata tale o strumentalizzata nel Cinquecento, perchè denuncia la fine politica messa in atto dall’Accademia e, in particolare, dal suo luogotenente, Vincenzo Borghini.

Le tre ghirlande intrecciate, infatti, simbolo, secondo le parole vasariane, delle tre arti del disegno, non solo andavano ad esaltare la figura di Michelangelo, ma creavano un legame inscindibile tra il monumento – e quindi l’illustre defunto – e la nascente Accademia, che di quel simbolo aveva fatto il suo stemma. Una strategia, oggi diremmo, assolutamente vincente.