Sommario
Tondo Doni di Michelangelo Buonarroti
Il Tondo Doni degli Uffizi, con i suoi 120 cm di diametro, si conquista il primo posto della nostra classifica per notorietà. Esso venne richiesto a Michelangelo Buonarroti dal potente mercante Agnolo Doni che, nel 1504, aveva sposato la nobildonna Maddalena Strozzi. Il matrimonio era caduto in un momento cruciale della storia fiorentina: difatti in quell’anno, per una fortunatissima congiuntura di eventi, erano presenti in città quei tre maestri che cambiarono le sorti del mondo artistico, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio e il citato Michelangelo. Due di loro vennero ingaggiati dal nostro Agnolo; se Michelangelo fu messo a lavorare sulla Sacra Famiglia in oggetto, unica sua pittura certa su tavola, a Raffaello vennero invece richiesti i Ritratti dei due novelli coniugi. Nel 1506 la coppia fu allietata dalla nascita della primogenita, Maria e, in quell’occasione, dicono oggi quasi concordemente gli studiosi, arrivò la commissione al Nostro. La datazione del Tondo al 1507 sarebbe suffragata, come vedremo, non solo dall’allusione alla nascita e al battesimo “nell’orditura iconologica del dipinto”, ma soprattutto dalla citazione dell’Apollo del Belvedere e del Laocoonte, scavati entrambi nei primi mesi del 1506, che Michelangelo ebbe forse modo di vedere in uno dei suoi viaggi a Roma per discutere col papa Giulio II della sua sepoltura. Se intorno al 1540 il dipinto era ancora conservato in casa Doni (Anonimo Magliabechiano, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), nel 1677, entrato nelle collezioni granducali, risultava collocato nella Tribuna degli Uffizi.
“Un tondo di pittura ch’è dentrovi una Nostra Donna”
Tema dell’opera è la Sacra Famiglia. In primo piano è la Vergine, seduta per terra, in maniera non perfettamente composta, raffigurata mentre sta per prendere dalle braccia di Giuseppe, inginocchiato alle sue spalle, il piccolo Gesù. In realtà non sappiamo con certezza se la Vergine stia prendendo o porgendo il Bambino; a dar retta infatti alle parole di Giorgio Vasari, la Madonna “alza in su le braccia un putto e porgelo a Giuseppo che lo riceve. Dove Michele Agnolo fa conoscere, nello svoltare della testa della madre di Cristo e nel tenere gli occhi fissi nella somma bellezza del Figliuolo, la maravigliosa sua contentezza e lo affetto del farne parte a quel santissimo vecchio. Il quale con pari amore, tenerezza e reverenzia lo piglia, come benissimo si scorge nel volto suo, senza molto considerarlo”. Alle spalle del gruppo, la figura estatica del piccolo Giovanni Battista, alla nostra destra, e, ancora più in lontananza, a far da cornice ai protagonisti, giovani ignudi intenti a interagire tra loro. A coronamento della scena sacra è la bellissima cornice, con la testa di Cristo in alto e quelle di quattro profeti tutt’intorno, realizzata da Francesco del Tasso, su disegno di Michelangelo stesso. Tra grottesche e racemi, sono nascoste, inoltre, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
La dirompente forza delle novità
Il Tondo, che vuole forse significare il passaggio, attraverso la figura del Battista, dal mondo antico e pagano (sullo sfondo) a quello cristiano (in primo piano), fece subito grande scalpore, sia per le novità iconografiche proposte che per il linguaggio con cui erano raccontate. Di fatto l’opera rappresentava, per la prima volta, con colori stridenti e metallici e con una luce chiarissima, forte e direzionale, il senso del movimento in atto, un movimento che, partendo dalla torsione della Madonna e dal suo braccio, sale verso il Bambino e ruota verso San Giuseppe, tornando infine nella posizione iniziale. Una spirale in verticale, insomma, contrastata, nello stesso dipinto, dal movimento orizzontale delle figure sullo sfondo. Contrasti, dunque, di cromie, di illuminazione, di moti e di soggetti. Le figure, poi, mostrano una monumentalità e una potenza fino ad allora sconosciute. La Madonna ostenta un braccio muscoloso e forme possenti, come quelle delle Sibille nella volta della Sistina; il Bambino, anche, palesa un corpo nerboruto come un adulto, certo memore degli esempi ellenistici e masacceschi. E che dire degli ignudi, in secondo piano? Precedenti importanti degli stessi dipinti nella citata Sistina, essi si rivelano una brillante palestra di resa anatomica. Il modellato dei loro corpi è ben definito e i contrasti luministici, essendo quelle figure più lontane, sono molto più attenuati, per annullarsi del tutto sulle montagne dello sfondo. Un effetto, questo, che sembra derivare da una profonda riflessione sul tema della cosiddetta “prospettiva aerea” proposta da Leonardo da Vinci.
La disputa tra committente e pittore
C’è un famoso aneddoto che racconta Giorgio Vasari a proposito del dipinto in oggetto e che, al di là della sua veridicità, serve a comprendere il carattere di Michelangelo e la sua popolarità benché ancora molto giovane. Lo riportiamo integralmente con le parole dell’aretino: “Finita che ella fu, la mandò a casa Agnolo, coperta, per un mandato insieme con una polizza, e chiedeva settanta ducati per suo pagamento. Parve strano ad Agnolo, che era assegnata persona, spendere tanto in una pittura, se bene e’ conoscesse che più valesse, e disse al mandato che bastavano quaranta, e gliene diede; onde Michelagnolo gli rimandò indietro, mandandogli a dire che cento ducati o la pittura gli rimandasse indietro. Per il che Agnolo, a cui l’opera piaceva, disse: ‘Io gli darò quei settanta’. Et egli non fu contento, anzi per la poca fede d’Agnolo ne volle il doppio di quel che la prima volta ne aveva chiesto; per che se Agnolo volse la pittura, fu forzato mandargli centoquaranta”.
Brevi cenni biografici sull’artista
Michelangelo Buonarroti nacque a Caprese nel 1475, ma, ancora in fasce, venne portato a Firenze. Figlio di Ludovico Buonarroti e Francesca di Neri, venne avviato dal padre agli studi umanistici sotto la guida di Francesco da Urbino, ma, dimostrando ben presto grande inclinazione al disegno, contravvenendo ai disegni paterni che lo volevano avviato alla sua stessa carriera politica, venne mandato a bottega da Domenico Ghirlandaio. Ben presto però, nel giovanissimo si fece strada l’interesse per la scultura e cominciò così a frequentare il giardino di San Marco, una sorta di prima “accademia” aperta da Lorenzo il Magnifico in una sua proprietà, dove erano state sistemate, all’aperto, le sculture antiche della collezione Medici. Notato da quello stesso Lorenzo, Michelangelo venne invitato, intorno al 1490, a stabilirsi nel palazzo dei Medici a Firenze in via Larga, dove nacquero le prime opere, la Centauromachia e la Madonna della Scala di Casa Buonarroti. Dopo la morte del Magnifico si spostò tra Bologna, Firenze e Roma, dove, allo scadere del secolo, realizzò la nota Pietà vaticana. I primi trent’anni del Cinquecento lo videro muoversi, ormai artista affermato, tra la nostra città e la capitale pontificia: a Firenze dette vita al celeberrimo David, mentre a Roma ottenne, mentre già si occupava della Tomba di Giulio II (opera che riuscì a terminare solo nel 1545), la commissione per affrescare la volta della Cappella Sistina, che venne compiuta, in solitudine, in soli quattro anni (1508-1512). Nel 1527, dopo il Sacco di Roma e la cacciata dei Medici da Firenze, Michelangelo, che in quegli anni si trovava in città per lavorare alla basilica di San Lorenzo, per cui eseguì la Sagrestia Nuova, la Biblioteca medicea laurenziana e il progetto della facciata, mai eseguita, ebbe parte attiva nel governo repubblicano in qualità di “governatore e procuratore generale sopra alla fabbrica e fortificazione delle mura”. Dopo la caduta della Repubblica nel 1530 e varie peripezie per nascondersi dai Medici che erano rientrati a Firenze come duchi, il “divino maestro” raggiunse la città Eterna dove restò per il resto della sua lunga vita, realizzando opere capitali come il Giudizio Universale in Sistina, le due Pietà del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze e del Castello sforzesco di Milano. Si dedicò anche con passione all’architettura, ottenendo incarichi prestigiosi, quali la sistemazione di Piazza del Campidoglio, la conclusione di Palazzo Farnese e la Cupola di San Pietro che verrà poi realizzata da Giacomo della Porta. Il 18 febbraio 1564 Michelangelo si spense, all’età di ottantanove anni, nella sua modesta residenza di piazza Macel de’ Corvi a Roma. Venne tuttavia sepolto a Firenze nella basilica di Santa Croce.
Tondo della Madonna del Magnificat di Sandro Botticelli
La Madonna del Magnificat degli Uffizi, di ben 135 cm di diametro, fu realizzata da Sandro Botticelli intorno al 1483, in un momento immediatamente successivo – si presume – al rientro dell’artista da Roma, dove era stato impegnato nell’esecuzione di alcuni affreschi per la Cappella Sistina. Se è incerta la datazione dell’opera, altrettanto lo è la committenza. Difatti le fonti e i documenti tacciono su quest’opera; sappiamo solamente che essa venne acquistata dalla Galleria nel 1784 da una collezione privata. La forma della tavola, riservata, come si è detto, alle dimore signorili, farebbe tuttavia pensare a una sua esecuzione per un qualche matrimonio o nascita. Rimane un mistero, ad oggi, di quale famiglia patrizia, anche se taluni hanno chiamato in causa la famiglia Medici. Date le sue considerevoli dimensioni, si potrebbe supporre, in realtà, anche una diversa destinazione, quale ad esempio la sede di una magistratura della Repubblica fiorentina. A confortare tale ipotesi, basterà ricordare, a tale proposito, il Tondo che Luca Signorelli ebbe a realizzare intorno al 1488 per la Sala delle Udienze dei Capitani di Parte Guelfa e oggi conservato nelle Sale Verdi degli Uffizi.
Madre e figlio, protagonisti della scena
Protagonista del dipinto è una giovanissima Madonna, con i suoi lunghi capelli biondi, seduta in trono, alla nostra destra, con in braccio il Bambino. Questi sembra guidare la mano della madre su un libro aperto di fronte a loro, sostenuto da un gruppo di splendidi angeli, dove Maria è in atto di scrivere il cantico “Magnificat anima mea Dominum” (La mia anima magnifica il Signore), da cui deriva il titolo dell’opera. Il testo, invece, che si intravede sulla pagina sinistra è stato identificato con il canto profetico di Zaccaria, celebrante la nascita del proprio figlio, Giovanni Battista, patrono di Firenze. Il Bambino, seduto sulle ginocchia della Vergine, tiene la sua mano sinistra su una melagrana, noto simbolo della Passione (i chicchi rossi del frutto alludono al sangue versato da Gesù sulla croce per la salvezza dell’umanità) e rivolge lo sguardo al cielo, ribadendo in tal modo la sua obbedienza al volere del Padre e, di conseguenza, la consapevolezza sul suo destino.
Un dialogo silenzioso
Insieme alla Madonna col Bambino, sono presenti nella tavola cinque angeli, tutti riccamente abbigliati e di una bellezza efebica. Due di loro stanno per poggiare sulla testa della Vergine una scintillante corona d’oro, talmente fine nella sua lavorazione a piccole stelle (attributo specifico della Vergine), da richiamare la prima formazione del Botticelli come orafo. Dall’altra parte, alla nostra sinistra, altri quattro angeli conversano silenziosamente tra di loro, assecondando con le loro posture, l’andamento circolare della tavola e creando un sottile e complesso sistema di moti e di incontri. Il tondo della cornice, sottolineato anche dal curvare della schiena della Vergine, quasi a protezione del figlio, è ribadito dall’insolita finestra tondeggiante posta alle spalle delle figure, attraverso la quale si apre un chiaro e sereno paesaggio campestre di sapore fiammingo.
Tra sacro e mondano
Pur essendo una tavola devozionale, ricca di oro a simboleggiare il divino, la Madonna del Magnificat ha connotazioni decisamente mondane. Basterà notare l’assenza di ali nelle figure degli angeli, abbigliati, invece, e pettinati à la page, come giovani rampolli di agiate famiglie fiorentine del Rinascimento; basterà osservare l’eleganza dell’acconciatura di Maria, con i suoi lunghi capelli biondi rischiarati da fili d’oro e coperti, sulla testa, da fini veli trasparenti. Non solo, l’artista si compiace di raccontare, con precisione lenticolare, certo derivante dalla conoscenza della pittura nordica, la sofisticata eleganza delle vesti, bordate anch’esse d’oro e rispondenti alla moda dell’epoca. La dolce grazia delle fattezze di Maria, la linea raffinata nella definizione delle figure e del paesaggio, il perfetto studio delle cromie, giocato sui toni caldi dei rossi e freddi dei blu, rendono quest’opera uno dei dipinti più equilibrati e pacati del maestro Botticelli.
Brevi cenni biografici sul pittore
Alessandro Filipepi, più noto come Botticelli, nacque a Firenze nel 1445. Ultimo di quattro figli maschi, cresciuto in una famiglia modesta, mantenuta dal padre che faceva il conciatore di pelli, dopo una prima formazione da orafo, fu a bottega da Filippo Lippi. Da questo il giovane Sandro apprese i rudimenti dell’arte pittorica, rimase affascinato dalle fisionomie eleganti dipinte dal maestro, dalla sua concezione di bellezza ideale e dall’umanità delle figure sacre. Dall’amicizia col Pollaiolo seppe trarre quella linea dinamica e energetica e quella forza del contorno e del movimento che saranno caratteristiche di tutta la sua produzione. Infine la frequentazione della bottega del Verrocchio, maestro anche di Leonardo da Vinci, lo portò ad esercitarsi su forme solenni e monumentali, sullo studio della luce e sulla resa degli effetti materici dei diversi materiali. Nel 1470, ormai pittore indipendente, cominciò a lavorare per le più agiate famiglie fiorentine. E poi conobbe Lorenzo il Magnifico che, intuendo le capacità del giovane artista, ne divenne non solo grande estimatore, ma importante mecenate, nonché amico fedele. Fu negli anni della Firenze laurenziana che il Nostro eseguì le sue opere più note, la Primavera e la Nascita di Venere degli Uffizi. Le commissioni fioccavano e Botticelli, nel giro di pochi anni, divenne l’artista più affermato e più richiesto. Soprattutto dopo il rientro da Roma, dove il Medici l’aveva mandato, nel 1482, ad affrescare alcuni episodi alle pareti della cappella Sistina. Al rientro nella città natale, continuò a licenziare numerosissime opere, spesso di carattere profano. Nel 1492, a seguito della morte del Magnifico, cambiarono però le sorti della città di Firenze e della vita e carriera di Sandro: la figura di Girolamo Savonarola era divenuta sempre più forte e la sua influenza, a livello religioso, si fece sentire pure su Sandro che cadde in preda a una profonda crisi mistica, leggibile anche nelle sue opere, tra le quali si ricorderà, a titolo esemplificativo, la Natività mistica della National Gallery di Londra.
Tondo Corsini di Filippino Lippi
Il Tondo Corsini della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, con un diametro di ben 173 cm, è il dipinto circolare più grande della nostra città. Esso venne eseguito da Filippino Lippi, noto allievo di Sandro Botticelli, intorno agli anni ottanta del Quattrocento. A confermare la datazione, il confronto diretto con altre opere che il pittore realizzò in quello stesso torno di tempo, quali, ad esempio, la Pala Magrini di San Michele a Lucca o i quattro Santi di Pasadena in California. Difficile invece stabilire la committenza dell’opera, anche se l’ingresso del dipinto in palazzo Corsini dalla villa di Careggi, chiamerebbe in causa la famiglia Medici e, in particolare, la figura di Lorenzo il Magnifico.
Una canzone in lode della Madonna
Il tondo rappresenta la Vergine col Bambino, al centro, circondata da tre angeli che cantano alla sua sinistra e da due angeli che portano un vassoio di fiori alla sua destra; da quel vassoio il piccolo Gesù, con un gesto di grande naturalezza, pesca un fiore per farne dono alla madre. Protagonista dell’opera è dunque la Vergine, o, almeno, così ci aspetteremmo. A ben guardare, infatti, la prospettiva del pavimento non indirizza lo sguardo dell’osservatore verso la Madonna al centro dell’opera, ma verso i cantori sulla destra. Uno dei tre angeli ha gli indici alzati e tesi, come per tenere il ritmo e poggia la mano sinistra sulla destra del compagno che gli è accanto. Questo ha in mano un rotolo dove è segnata una partitura musicale così ben raccontata che gli studiosi, recentemente, vi hanno potuto riconoscere la variante di una delle canzoni più famose del tempo, Fortuna desperata. La canzone, composta intorno al 1478 per commemorare la morte della giovane Simonetta Cattaneo, viene qui trasformata da Filippino in una lode alla Vergine.
La linea elegante di Filippino
Sebbene nella linea elegante delle figure e nella delicatezza del pennello, i riferimenti a Sandro Botticelli siano evidenti, altrettanto chiaro risulta il tentativo da parte di Filippino di distaccarsi dal maestro, soprattutto nella scelta compositiva delle figure che non seguono l’andamento circolare della cornice, ma sembrano quasi pensate per una terminazione rettilinea. Un’opera, questa, dunque, della prima maturità, dove si sentono echi, nei profili montuosi del paesaggio, di Leonardo da Vinci, e, nelle decorazioni architettoniche, delle opere del Verrocchio, maestro di Leonardo.
Brevi cenni biografici sul pittore
Filippino nacque a Prato intorno al 1457. Era figlio di uno scandalo: il padre, frate carmelitano e pittore straordinario, Filippo Lippi, si era infatti innamorato, mentre lavorava agli affreschi del Duomo pratesi, della bella monaca Lucrezia Buti. Dimostrando fin da piccolo grande attitudine all’arte, il Nostro si formò presso il padre con il quale, appena dodicenne, partecipò alla decorazione del Duomo di Spoleto. Dopo la morte del genitore passò nella bottega di Botticelli e si distinse tanto che fu tra gli inviati di Lorenzo il Magnifico a Roma per la grandiosa campagna decorativa della Cappella Sistina. Dopo un periodo passato a Volterra, fece ritorno a Firenze e, ormai noto, ebbe l’incarico di portare a termine il ciclo della cappella Brancacci, rimasto incompiuto dopo la partenza di Masolino e Masaccio. Tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta si divise tra Roma, dove aveva ottenuto la prestigiosa commissione di affrescare la cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva, e Firenze dove Filippo Strozzi gli aveva affidato la propria cappella in Santa Maria Novella. Tra gli artisti più richiesti della fine del Quattrocento, ma anche tra i più nervosi e irrequieti, Filippino morì a soli 47 anni di età.
Tondo Tornabuoni di Domenico Ghirlandaio
Il Tondo degli Uffizi venne eseguito da Domenico Ghirlandaio intorno al 1487: in quegli anni il pittore era stato assoldato dai Tornabuoni, una delle famiglie più potenti e ricche di Firenze, imparentate per via di Lucrezia con i Medici, per l’affrescatura della cappella maggiore di Santa Maria Novella, dove si dice, tra l’altro, abbia esordito il giovane Michelangelo. Probabilmente, in quello stesso momento, venne richiesta a Domenico la realizzazione del dipinto in oggetto che, secondo gli studi più moderni, sarebbe da riconoscere nell’opera descritta nell’inventario del 1498 nella camera di Lorenzo Tornabuoni. Il soggetto scelto, quello dello “Natività”, nonché la data MCCCCLXXXVII scritta sul blocco di marmo raffigurato in primo piano, fanno pensare che il dipinto possa essere stato eseguito in occasione della nascita di Giovanni Tornabuoni, figlio primogenito di Lorenzo e Giovanna degli Albizi, nato nel 1487.
I Tornabuoni diventano Magi
Il tema scelto per il Tondo è l’Adorazione dei Magi che Domenico decise di ambientare in un paesaggio di rovine, dominato al centro dalla capanna, inserita a sua volta entro una grandiosa architettura di gusto classico, certo memore dei viaggi compiuti dall’artista a Roma. In primo piano sta la Vergine con il Bambino, fulcro dell’intera composizione, mentre poco distante è Giuseppe; inginocchiati davanti alla Sacra Famiglia sono i Magi, riconoscibili per le corone che hanno deposto ai piedi del futuro Salvatore. In alcuni dei personaggi si è pensato che possano essere ritratti alcuni membri della famiglia committente; in particolare, nell’uomo dai lunghi capelli neri inginocchiato a destra, si sarebbe riconosciuto il capofamiglia, Lorenzo Tornabuoni.
Un narratore d’eccezione
La fama del Ghirlandaio quale narratore d’eccezione è certo qui confermata: il pittore riesce infatti ad orchestrare perfettamente la scena, dando risalto ai protagonisti ma non perdendo l’occasione di cimentarsi nel racconto preciso e puntuale di costumi, stoffe, oggetti ed elementi decorativi. Osservando attentamente l’opera, si rimarrà stupiti tanto dai volti dei vari personaggi, tutti ben caratterizzati, quanto dagli straordinari brani naturalistici che, nella loro verosimiglianza, tanto devono alla contemporanea pittura fiamminga.
Brevi cenni biografici sul pittore
Domenico Bigordi, noto come il Ghirlandaio, nacque a Firenze nel 1448 e divenne in breve uno dei più importanti protagonisti del Rinascimento. Dopo una prima formazione da orafo nella bottega paterna, frequentò, insieme a molti altri giovani promettenti, la bottega allora più nota della città, quella di Andrea del Verrocchio. Se la prima chiamata, da pittore indipendente, avvenne nell’entroterra fiorentino, nella Pieve di Cercina, per l’esattezza, ben presto Domenico cominciò ad essere richiesto dalle più importanti famiglie patrizie di Firenze e dai più illustri complessi religiosi. Alla metà degli anni Settanta fu attivo nella decorazione della cappella dei Vespucci nella chiesa di Ognissanti e, poco dopo, fu a San Gimignano dove, insieme ai fratelli Giuliano e Benedetto da Maiano, mise mano alle Storie di Santa Fina per la Collegiata. Dopo la commissione di alcune scene per la Cappella Sistina a Roma, Ghirlandaio divenne artista rinomatissimo e, tornato nella sua città natale, licenziò grandissimi capolavori, tra i quali si ricordano gli affreschi della cappella Sassetti in Santa Trinita e della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella. Non mancò la produzione di tavole, numerosa nel numero e raffinata nel linguaggio. Morì a soli 45 anni di febbri pestilenziali, mentre stava lavorando ad alcuni mosaici per Siena. Fu sepolto in Santa Maria Novella.
Tondo Bartolini di Filippo Lippi
Quinto in classifica – certo non per la minor qualità – è il Tondo della Galleria Palatina che venne eseguito da Filippo Lippi, prosecutore ideale del grande Masaccio, negli anni della sua maturità. Viene infatti messo spesso in relazione con alcuni documenti risalenti al 1452-1453, secondo i quali il Nostro, in quell’arco di tempo, sarebbe stato incaricato di eseguire un dipinto circolare per Leonardo Bartolini Salimbeni destinato alla sua residenza. Vero è che sul retro della tavola si trova l’abbozzo di uno stemma, raffigurante un grifo, che potrebbe indicare, se identificato, una diversa committenza.
L’originalità del soggetto
Il tondo, uno dei più originali del Quattrocento, mette in scena diversi episodi della vita della Vergine: in primo piano è presentata la Madonna che, seduta su un trono di cui si intravede soltanto la spalliera, tiene in braccio il piccolo Gesù, colto nell’atto di staccare chicchi da una melagrana, simbolo della fertilità e della futura Passione di Cristo. Alle loro spalle, si apre un palazzo rinascimentale dove sono raccontati, con una spiccata attinenza alla vita femminile del XV secolo, due diversi momenti della vita della madre di Maria, Anna: l’Incontro con Gioacchino, a destra, e la Nascita della Vergine, a sinistra. La diversa grandezza delle figure nei tre episodi serve a misurare non solo la profondità spaziale, ma anche il tempo trascorso da una vicenda all’altra.
Un capolavoro del Rinascimento
La costruzione geometrica è rigorosamente aderente alla prospettiva lineare, ma viene in parte relegata in secondo piano da quel superbo senso scenografico che, nel perfetto fondere le singole parti della storia, sembra tenere a modello la Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti. Le forme nitide dell’architettura, l’elegante disegno delle figure, il delicato ovale della Vergine, la cura dei dettagli, dalla raffinata acconciatura della protagonista ai suoi pregevoli gioielli, nonché la capacità di umanizzare il tema sacro, anche attraverso il gioco del Bambino con il frutto, tutti questi elementi rendono il Tondo Bartolini un vero e proprio capolavoro del primo Rinascimento.
Brevi cenni biografici sul pittore
Filippo di Tommaso Lippi nacque a Firenze nel 1406. Rimasto orfano alla tenera età di due anni, venne cresciuto nel convento di Santa Maria del Carmine, dove poi, prenderà i voti nel 1420. Proprio in quel luogo, il Nostro ebbe modo di osservare e ammirare gli affreschi della Cappella Brancacci di Masaccio che divennero, per l’artista, modello fondamentale. All’esempio masaccesco si aggiunse il riferimento alla coetanea scultura di Donatello e, dopo il soggiorno a Padova degli inizi degli anni Trenta, alla pittura fiamminga, da cui derivò quel gusto per i dettagli che accompagnerà tutta la sua produzione. Dopo il rientro a Firenze, il suo linguaggio andò sempre più definendosi e il Nostro cominciò a privilegiare il lato umano dei suoi personaggi, come è evidente nel vigoroso abbraccio della Madonna di Tarquinia oggi conservata alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. Ormai noto, forse anche in virtù dell’amicizia con Cosimo il Vecchio, Filippo ottenne commissioni sempre più prestigiose, tra le quali si ricorderà la decorazione della cappella maggiore del Duomo di Prato, luogo dove conobbe la bella Lucrezia Buti da cui ebbe un figlio, Filippino. Nell’ottobre del 1469, all’età di sessantasei anni, il Lippi passò a miglior vita: si trovava a Spoleto per lavorare a un ciclo di affreschi per la cattedrale di quella città. Ma, ahinoi, l’impresa non venne compiuta.