Poco fuori il centro storico di Firenze, nella prima periferia della città, in quella zona che oggi conosciamo come San Salvi, si nasconde uno dei più grandi capolavori del primo XVI secolo, un’Ultima Cena meravigliosamente dipinta, a varie riprese, tra il 1511 e il 1530, dal “pittore senza errori”, Andrea del Sarto.
Sommario
Il giovane Andrea d’Agnolo e i vallombrosani
Aveva poco più di vent’anni Andrea del Sarto quando venne chiamato a realizzare “per il monasterio di San Salvi, fuor della porta alla Croce nel refettorio, l’arco d’una volta e la facciata, per farvi un Cenacolo”. Era reduce il Nostro da una prima importante commissione, la decorazione ad affresco del Chiostrino dei Voti della SS. Annunziata con le Storie di Filippo Benizzi. Si dice che il servita che aveva preso accordi con Andrea, certo fra Mariano, avesse cercato di strappare al pittore – ottenendolo – un prezzo molto basso, se non nullo, per quell’impresa. Quel ciclo di affreschi, aveva sostenuto il frate, se ben compiuto dall’artista, sarebbe potuto diventare il suo biglietto da visita per future importanti allegagioni. Non aveva di fatto tutti i torti, quel Mariano, se Andrea, appena terminato il lavoro alla basilica mariana, venne scelto dal colto Don Ilario Panichi per il monastero vallombrosano di San Salvi.
La fondazione del Monastero
Correva l’anno 1048 quando una comunità di monaci vallombrosani, da poco formatasi, decise di ampliare e trasformare in un grande centro religioso la piccola chiesa di San Michele in San Salvi: sorta, secondo leggenda, nel lontano VII secolo, nel luogo miracolosamente indicato dalla reliquia di San Salvi, vescovo di Amiens o più probabilmente di Albi, la chiesetta si trovava in aperta campagna, fuori dalle fortificazioni, ma non troppo distante dalla città stessa. Una posizione ottimale per il nuovo Ordine nato per volontà di Giovanni Gualberto.
Alla fine dell’XI secolo le ampie donazioni di terre da parte dell’abate Bernardo degli Uberti consentirono l’estensione delle proprietà del monastero fino all’Arno; ma fu nei secoli successivi che esso venne ad assumere dimensioni importanti, con il completamento della chiesa, la costruzione di due chiostri e dell’aula capitolare. L’accesso al monastero, al sorgere del Quattrocento, era segnato dal monumentale Tabernacolo del Madonnone affrescato agli inizi del Quattrocento da Lorenzo di Bicci con la collaborazione del figlio Bicci.
Una stagione feconda: il Cinquecento
Agli inizi del XVI secolo, sotto la guida di Don Biagio Milanesi, Generale dell’Ordine fino al 1523, il complesso del monastero, arricchito di capolavori, conobbe una straordinaria stagione artistica. Varrà la pena ricordare che, tra la fine del Quattrocento e gli esordi del secolo successivo, non solo si commissionò alla bottega di Verrocchio, dove gravitava in quel tempo Leonardo da Vinci, la pala raffigurante il Battesimo di Cristo oggi agli Uffizi, ma si dette anche inizio alla realizzazione di un grandioso monumento, progettato da Benedetto da Rovezzano e mai portato a termine, per custodire le reliquie del santo fondatore dell’Ordine.
Ma furono soprattutto i volumi del complesso a vivere un momento davvero fecondo. Grazie ai finanziamenti messi a disposizione da un monaco, Don Ilario Panichi, fu costruito e decorato il nuovo refettorio al lato sud del secondo chiostro che, destinato all’accoglienza degli ospiti, doveva essere accessibile direttamente dall’esterno. Nell’aprile del 1505 si dette inizio ai lavori e pochi anni dopo la muratura del nuovo ambiente doveva essere ultimata, se Don Ilario potè commissionare ad Andrea la decorazione della parete di fondo.
13 febbraio 1068: la “Strage di San Salvi”
Tra le fine del 1065 e l’inizio del 1066, a pochi decenni dalla nascita del nuovo Ordine Vallombrosano, accadde un episodio di violenza inaudita: la cosiddetta strage di San Salvi, perpetrata ad opera del vescovo Pietro Mezzabarba. Se ci chiediamo quale evento potè portare a tale barbarie, beh, è presto detto: il prelato era stato accusato pubblicamente da Giovanni Gualberto di simonia. Sembra oggi cosa da poco, ma in realtà, all’epoca, non lo era affatto. Il Mezzabarba reagì con rabbia, inviando le truppe del marchese Goffredo il Barbuto all’abbazia di San Salvi, dove fecero strage di monaci. Era convinto, il vescovo, che i soldati avrebbero trovato – e ucciso – anche Gualberto; ma, malauguratamente per lui, il vallombrosano era partito il giorno prima. Sdegnati da tale affronto e ferocia, i frati si rivolsero al Concilio di Roma, sfidando il Mezzabarba: se un seguace di Giovanni fosse riuscito ad attraversare indenne una pira appositamente allestita, allora l’accusa da loro mossa sarebbe risultata fondata. A dispetto dello sdegnoso rifiuto del vescovo, la prova si tenne presso la Badia a Settimo il 13 febbraio 1068, giorno in cui Pietro passò illeso in mezzo a due cataste ardenti di legna. L’ordalia dimostrò che Dio stava dalla loro parte.
I primi lavori al Cenacolo: i tondi del sottarco
Nel 1511,dunque, Andrea del Sarto venne chiamato a lavorare nel monastero di San Salvi. La decorazione ebbe inizio dal sottarco che inquadra l’Ultima Cena. Qui il Nostro dipinse, entro cinque tondi, la Trinità al centro, nella forma di tre teste identiche accostate e, ai lati, santi protettori dell’Ordine: San Giovanni Gualberto e San Salvi a sinistra, San Benedetto e San Bernardo degli Uberti a destra.
Ad incorniciarli, una vivace decorazione a grottesche in monocromo bianco su fondo giallo (colore evidentemente allusivo all’effetto prezioso dell’oro), realizzata, molto probabilmente, da Andrea di Cosimo Feltrini, quello specialista della “grottesca” tanto apprezzato da Giorgio Vasari che, pochi anni più tardi, sarà attivo nella cappella di San Bernardino o Cappella dei Priori in Palazzo Vecchio.
Tradizione e innovazione
Quando Andrea diede inizio all’impresa aveva solo venticinque anni e, a dispetto della giovane età, era già un maestro ben affermato. Tuttavia mostrava ancora gli influssi determinanti della sua formazione, di quella silenziosa monumentalità di Fra Bartolomeo che divenne modello per tante generazioni di artisti. Numerosi gli elementi comuni tra i vallombrosani di Andrea a San Salvi e quelli delle pale d’altare del frate domenicano, primo tra tutti l’intensità espressiva dei personaggi, resa con una tavolozza ricca di sfumature che eliminano i contorni netti e suggeriscono la naturale ambientazione nello spazio circostante. Rispetto al maestro, tuttavia, già qui Andrea manifestava la volontà di aver intrapreso una strada diversa: la magniloquenza trionfante di Fra Bartolomeo cede il passo alla sottigliezza psicologica, a pennellate morbide e veloci, a panneggi ariosi, mossi e nervosi.
La ripresa dei lavori negli anni dell’ultima Repubblica
Poco dopo il 1511 i lavori di costruzione alla nuova ala del monastero dovettero interrompersi per riprendere poco tempo più tardi, sicuramente entro il 1518. In quell’anno infatti Michele del Tasso veniva pagato da quello stesso Don Ilario per aver eseguito l’arredo ligneo del refettorio, oggi del tutto scomparso. Nel 1522 il finanziatore dell’ampliamento, il cui stemma è inciso sui monumentali camini della stanza del lavabo e della cucina, passava a miglior e ancora il Cenacolo da lui richiesto non era stato completato. Si dovrà attendere il tempo dell’ultima Repubblica. Sarà infatti intorno al 1526 che Andrea del Sarto rimetterà mano all’affresco, completandolo nel giro di poco più di un anno. Benché subito famoso, il Cenacolo fu tuttavia visibile per pochi anni poiché le monache che si installarono a San Salvi dopo l’assedio del 1530 osservavano una rigorosa clausura. Anche Giorgio Vasari non ebbe occasione di vederlo e dovette fidarsi, nel raccontarlo, delle parole altrui e della riproduzione, pur con qualche modifica, fattane da Ridolfo del Ghirlandaio nel refettorio del monastero di Santa Maria degli Angeli, datata 1543.
…e fu subito leggenda
L’opera venne giustamente celebrata fin dall’origine e nacque la leggenda, raccontata da Benedetto Varchi, secondo la quale i guastatori inviati dalla Repubblica Fiorentina nel 1529 a distruggere gli edifici fuori le mura per eliminare la possibilità di asilo alle truppe assedianti la città, rimasero talmente colpiti dalla bellezza dell’affresco che non procedettero oltre. Secondo Giorgio Vasari: “…non è maraviglia se la sua bontà fu cagione che nelle rovine dell’assedio di Firenze l’anno 1529 egli fusse lasciato stare in piedi, allora che i soldati e guastatori, per comandamento di chi reggeva, rovinarono tutti i borghi fuor della città, i monasteri, spedali e tutti altri edifizii. Costoro dico, avendo rovinato la chiesa et il campanile di San Salvi e cominciando a mandar giù parte del convento, giunti che furono al refettorio, dove è questo Cenacolo, vedendo chi gli guidava e forse avendone udito ragionare sì maravigliosa pittura, abbandonando l’impresa, non lasciò rovinar altro di quel luogo, serbandosi a ciò fare quando non avessero potuto fare altro”.
Il precedente leonardesco
Una serie di disegni preparatori conservati, in massima parte, al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Galleria degli Uffizi a Firenze accompagna la genesi dell’opera che riflette nello schema compositivo il Cenacolo di Leonardo a Milano, ben noto ad Andrea attraverso una ricca produzione grafica. Tuttavia pare che il pittore avesse riflettuto più direttamente sull’incisione di quell’opera che Marcantonio Raimondi, su disegno di Raffaello, aveva dato alle stampe nel 1517. Il punto di partenza è comunque, partendo dalle ricerche leonardesche, lo studio dal vero. Immaginiamo l’artista prendere a modello i garzoni di bottega, atteggiarli nella posa voluta e farne una serie di schizzi con una precisione tale da evidenziare, già in quelli, i caratteri individuali dei vari personaggi. Lo studio preciso e acuto dei singoli protagonisti – delle loro teste, mani e piedi – sfocia poi in una composizione molto equilibrata, in una scena, al solito per Andrea, dominata da un’armonia solenne.
Le parole di Giovanni si fanno immagine
In un interno dalla parete grigio verde e una balconata, in alto, da cui si affacciano due servitori, tradizionalmente – ma erroneamente – creduti i ritratti del pittore e della moglie Lucrezia, si allunga una tavola rettangolare, coperta da una semplice tovaglia bianca, intorno alla quale siedono gli apostoli ai lati di Gesù al centro. L’individuazione dei personaggi non è ovvia, anche se è facile riconoscere alla sinistra del Salvatore, il giovane Giovanni Evangelista, seguito da Giacomo, cugino di Gesù e a lui simile per fisionomia, Andrea, fratello di Pietro e forse Bartolomeo; dall’altra parte, a destra, Giuda, Pietro e forse Tommaso. La raffigurazione illustra con fedeltà letterale il testo del Vangelo di Giovanni e, in particolare, il momento in cui Cristo annuncia il futuro traditore che, come nel Cenacolo di Leonardo e a differenza di quelli fiorentini della tradizione, siede alla sua destra.
Ogni gesto è studiato ed esprime un’emozione, ma sempre secondario a un universale idea di armonia della composizione. C’è sorpresa, sconforto e angoscia, ma non c’è dramma gridato, nè ci sono atteggiamenti inconsulti o esasperati; c’è casomai una tragedia silenziosa. Il colore, infine, è brillante e molto diverso da quello della tradizione; Andrea sceglie i violetti, i verdi, gli arancio e i turchese e gioca con numerosissimi effetti cangianti che servono a dare movimento alla composizione. Il risultato è stupefacente e non è certo un caso che il Cenacolo di San Salvi sia diventato uno dei più grandi capolavori del primo Cinquecento fiorentino.
Articolo tratto da:
La tradizione fiorentina dei cenacoli, a cura di Cristina Acidini Luchinat e Rosanna Caterina Proto Pisani, Firenze, 1997.